Autunno del ciclo economico: retoriche e conflitti

DIALOGHI SOPRA I MASSIMI SISTEMI D’IMPRESA / 2. La vittoria della plutocrazia dei Master of Universe. L’egemonia dell’economico sul politico. Le diseguaglianze intollerabili e il conflitto sociale desaparecido. Come costruire un mondo meno disfunzionale di quello che ci circonda? Un dialogo tra Pierfranco Pellizzetti e Giovanni di Corato, CEO di Amundi Real Estate SGR.

DIALOGHI SOPRA I MASSIMI SISTEMI D’IMPRESA / 1: Consumatore sovrano e neutralità tecnologica: miti o certezze?
Dialogo tra Pierfranco Pellizzetti e l’avvocato d’affari Matteo Bonelli.


Caro Giovanni[1],

«Il capitalismo è cambiato in meglio. La crescita

economica e il benessere si sono diffusi a livello

planetario […]. Anche i processi democratici si

sono rafforzati»[2].

Franco Bernabé

«La ricorrente tendenza alla finanziarizzazione

è, come diceva Braudel, il segno dell’autunno di

una particolare espansione materiale»[3].

Giovanni Arrighi

Braudel a Châteauvallon

Qualche anno fa Immanuel Wallerstein, direttore del Braudel Center di New York, suonava campane a martello per un Capitalismo segnalato in fase autunnale; in quanto dato in avvicinamento a tre asintoti strutturali che – a suo dire – ne bloccavano la capacità propulsiva: «1) la deruralizzazione del mondo, che pone termine alla capacità del capitalismo di tenere sotto controllo la crescita della forza lavoro; 2) i limiti ecologici dell’inquinamento e del carattere non rinnovabile delle risorse; 3) la crescente democratizzazione del mondo»[4]. Più sinteticamente ora qualcuno si domanda se non nasconda un’immensa follia la strategia del comando padronale/manageriale di prosciugare l’area centrale della società e di liberarsi del lavoro vivo mediante quello morto delle macchine più o meno pensanti, che Zygmunt Bauman prefigurava oltre vent’anni fa: «la creazione della ricchezza sta per emanciparsi finalmente dalle sue eterne connessioni – vincolanti e irritanti – con la produzione, l’elaborazione dei materiali, la creazione di posti di lavoro, la direzione di altre persone. I vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare e restare ricchi; e tale dipendenza mitigava sempre i conflitti di interesse e faceva fare qualche sforzo, per quanto tenue, per prendersi cura degli altri. I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri»[5].

Una follia che risulta tale non per ragioni caritatevoli o in base a ipotetiche tutele delle minime coesioni sociali, bensì per una considerazione eminentemente pratica (che i signori del mondo, appollaiati sul ramo che stanno segando, dovrebbero pur porsi): in questo taglio radicale del potere d’acquisto del ceto medio – decimato a mezzo precarizzazione e disoccupazione – chi acquisterà i prodotti sfornati dalla mega-macchina automatizzata mondiale?

Ciò nonostante, ad oggi il regime proprietario consacrato all’accumulazione di ricchezza sembrerebbe godere ottima salute. Come risulta fattualmente dalla ciclopica accumulazione di ricchezza nella punta al vertice della piramide sociale, ulteriormente incrementatasi in questo terribile biennio di pandemia. I cui patrimoni nell’ultimo anno sono cresciuti del 31%; stando a quanto regista il Bloomber Billionaires Index, la classifica dei 500 straricchi della finanza mondiale.

Piuttosto continuo a chiedermi da un po’ di tempo se l’attuale …

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.