Spettatori iperconnessi. La fruizione culturale al tempo del virtuale

“Grazie alle tecnologie interattive entriamo dentro lo spettacolo e torniamo a usare il nostro corpo, ritrovando tutti i sensi”. Un’intervista al sociologo Derrick de Kerckhove tratta dal volume “Postpubblico. Lo spettatore culturale oltre la modernità”, in questi giorni in libreria per Mimesis edizioni.

Intervista a Derrick de Kerckhove

La connessione in streaming di eventi, manifestazioni, convegni è ormai una consuetudine, tuttavia per noi resta importante seguire un evento dal vivo, vivere l’esperienza fisica e materiale della mostra o del festival. Possiamo servirci di qualsiasi dispositivo e interagire con altre persone che si possono trovare ovunque, ma la presenza del nostro corpo resta ancora qualcosa di cui non vogliamo fare a meno.
Il nostro rapporto con le tecnologie e con quello che accade nel nostro mondo è un tema sempre più ricorrente ed è interessante usare l’arte cinematografica come esempio per trattare il rapporto di noi postspettatori con la produzione artistica.

Fondamentalmente abbiamo bisogno di ritrovare il nostro corpo che si è perso in duemila anni di scrittura e di senso. Quando abbiamo inventato l’alfabeto fonetico e abbiamo iniziato a leggere, da un lato abbiamo preso possesso di noi stessi e del nostro corpo in modo individuale, ma dall’altro questo stesso sistema di lettura ha messo il nostro corpo sotto un controllo enorme. Abbiamo messo da parte i sensi del tatto, del gusto, dell’udito e dell’olfatto privilegiando il solo senso della vista. Finché l’elettricità e le tecnologie interattive ci hanno permesso di usare tutto il nostro corpo e di ritrovare tutti i nostri sensi.
Ci sono alcune parole chiave da seguire in questo discorso, la prima è “immersione”. Letteralmente siamo immersi, siamo bagnati dentro il terzo spazio che è lo spazio virtuale. Vuol dire che ci siamo sempre dentro, che non è più lo stare di fronte a quello che stiamo guardando secondo l’approccio visuale rinascimentale. Siamo passati dal punto di vista al “punto di essere”, il punto della presenza del nostro corpo nello spazio, che rovescia l’approccio dello stare davanti all’opera, cioè del punto di vista del Rinascimento. Questo significa che invece di stare di fronte allo spettacolo, la realtà virtuale ci porta dentro lo spettacolo e più la nostra vita si virtualizza, più l’essere ancorato fisicamente e fisiologicamente in un posto diventa importante, cioè necessitiamo della presenza e della prova del nostro corpo.
Un’altra parola è “interattività”, che secondo me è un’estensione dell’esperienza tattile, che merita anch’essa un approccio critico. Come dicevo con l’alfabeto fonetico il tatto è stato occultato dalla vista che ha prevalso nella sensibilità occidentale, finché le tecnologie interattive, che prevedono l’uso della mano attraverso il touch screen, lo hanno portato dentro il mondo visuale. Ecco che lo spettatore immerso nel virtuale, torna a usare il proprio corpo.
L’arte cinematografica è utile come esempio perché ci permette di passare dallo spettacolo all’interazione che è fuori dal film. Ready Player One di Steven Spielberg, visto in una sala con poltrone multisensoriali che vibrano per riprodurre la reazione ai suoni, facendoti vivere fisicamente quello che stai vedendo sullo schermo, pone questa domanda: fisiologicamente che succede allo spettatore del film? Il film è ancora uno spettacolo. Ma che impatto ha sul tuo corpo?
A Nizza c’è un nuovo cinema dove c’è una sola sala sempre esaurita con le poltrone multisensoriali, che si sollevano, tremano, si muovono e ti fanno sentire sincronicamente ciò che accade sullo schermo. Questo fondamentalmente significa che i produttori di cinema hanno capito che quando una persona guarda un film il suo corpo è importante, perché partecipa all’esperienza cinematografica, cosa che è data per scontata dalla critica e dall’estetica. La produzione cinematografica invece, per competere con Netflix, vuole convincere le persone a uscire di casa e farle provare questa esperienza con il corpo. Tutto questo mi fa pensare a quello che diceva Artaud: “Je veux que le gens vont à mon spectacle comme s’ils allaint chez le dentiste”. Allora è chiaro che è fondamentale conoscere l’impatto fisiologico dello spettacolo sul nostro corpo. Oggi il cinema è assolutamente soffocato dagli effetti speciali che non bastano più a loro stessi, mentre i nostri corpi e le nostre menti sono sature di immagini di violenza, di erotismo e di brutalità che sono pixelati, ma sono anche reali. C’è una assuefazione alla visione di tutto questo che va cambiato per contrastare la perdita dell’incisività dell’esperienza sensoriale.
Ho lavorato sulla problematica del cervello e dell’alfabeto che Marshall McLuhan ha definito la fonte del cambiamento fondamentale psicologico ed epistemologico della cultura greco-romana. Questo cambiamento crea una situazione non solo culturale e sociale, ma civilizzazionale, il che significa che non posso studiare qualcosa senza passare un po’ nella zona neurologica.
Come professore di letteratura francese insegnavo ai miei studenti Marivaux, che era un drammaturgo francese, da cui deriva “marivauder”, che significa in sostanza avere un atteggiamento raffinato e galante. Marivaux era innamorato di una signora che aveva nella Parigi della fine del Seicento molti corteggiatori ed era adorata da tutti questi personaggi con cui parlava in un modo assolutamente delizioso. Marivaux subito dopo un incontro tra questa donna e i suoi ammiratori, di nascosto la vede guardarsi nello specchio e rifare tutte le espressioni di seduzione, di accettazione, di rifiuto che aveva usato poco prima. Lui si mette così a studiare tutte le forme possibili di emozione che possiamo sentire nel rapporto amoroso, ne fa un’analisi morale e psicologica e la traduce nei suoi lavori.
Questo racconto introduce l’argomento dei neuroni specchio, che sono i neuroni che si attivano nel nostro cervello quando vediamo un’azione. Vuol dire che se tu porgi una banana alla scimmia, il sistema nervoso della scimmia produce, ancor prima di fare il gesto di prendere la banana, questo stesso gesto. E che tutti i nostri gesti sono preprogrammati, un po’ come avere un software che esegue il gesto dentro il nostro sistema nervoso. Ma vuol dire anche che quando siamo spettatori noi abbiamo un sistema nervoso che imita il gesto, lo segue, lo riproduce in dettaglio: tutto questo è l’empatia dei neuroni specchio. E quando siamo davanti a uno spettacolo, a un’opera teatrale o un film questa gestualità funziona ancora, ci aiuta a capire. Proprio come molte persone quando leggono devono fare una sottovocalizzazione per prendere una presa più forte sulla parola, per aiutarsi ad ascoltare e a capire. Tutto questo in realtà era già emerso nel lavoro di un gruppo accademico inglese negli anni Sessanta sui piani e sulle procedure della gestualità, ma la critica artistica non si è mai servita di questo studio. I nostri corpi di spettatori non vengono considerati neppure dalla critica letteraria, eppure noi leggiamo con il corpo.

I neuroni-specchio in molte discipline sono apparsi come la spiegazione di molte domande irrisolte. Per esempio l’architettura ha capito che alcune lavorazioni che si tramandano non si possono imparare solo da un racconto. L’idea del trasmettere “andando a bottega” ha sempre funzionato per in principio dei neuroni-specchio: il corpo impara dal gesto che vede, a rifare lo stesso gesto. Questo introduce l’idea che non tutto quello che possiamo imparare passa attraverso l’educazione. Non è l’educazione, è l’imparare dal gesto. Significa che l’educazione ha un limite, l’imparare no: è il learning e non l’education. Noi oggi prendiamo un telefono nuovo e non leggiamo le istruzioni, usandolo impariamo con il tatto e il gesto. Non c’è spazio per l’education, ma per il learning sì.
Per creare un pubblico però dobbiamo insegnare a quel pubblico a imparare, ma dobbiamo anche educarlo perché se io entro in un museo e non so nulla, non riuscirò …

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