Di fronte alla crisi economica verticale, simile a quella prodotta da una guerra, provocata dai blocchi della produzione decisi dai governi per contrastare la diffusione del coronavirus, e di fronte all’emergenza del cambiamento climatico che minaccia altre e peggiori catastrofi umane ed economiche, gli economisti, i politici e gli stessi dirigenti delle banche centrali si stanno interrogando sull’opportunità (o sulla necessità) di modificare la missione e il ruolo di quelle istituzioni, le banche centrali appunto, che, avendo il monopolio della moneta legale, stanno stampando trilioni (migliaia di miliardi) di nuovo denaro per cercare di superare la doppia crisi economica e ambientale. La discussione sul futuro delle banche centrali, benché nascosta agli occhi dell’opinione pubblica e praticamente ancora ignorata in Italia, ha una rilevanza eccezionale sul piano politico.
Il dibattito, tutt’altro che accademico, verte su questioni strategiche ed è sollecitato dalla svolta decisamente progressista di politica economica promossa dalla nuova amministrazione americana. Joe Biden ha inaugurato la sua presidenza decidendo di investire cinque trilioni nei prossimi anni per lanciare un New Deal Verde e affrontare di petto la crisi dell’occupazione, della povertà e delle diseguaglianze. Il suo governo realizzerà nuove infrastrutture materiali e immateriali e sta già distribuendo assegni di centinaia di dollari alle famiglie con redditi bassi e medio bassi. Per finanziare il suo programma il presidente americano non punta solo a eliminare i paradisi fiscali e alzare le tasse sui profitti delle corporation ma preme soprattutto perché la Federal Reserve, la banca centrale americana, continui a stampare enormi quantità di moneta anche a costo di aumentare l’inflazione oltre la soglia – finora considerata sacra e inviolabile – del 2%.
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