Breivik e i suoi apostoli: a dieci anni dalla strage di Utoya

La violenza assassina a cui abbiamo assistito a Utoya il 22 luglio 2011 e poi in decine di episodi simili – un “jihadismo ariano” che ha tutti i segni della brutalità scatenata da ragioni religiose – ha fatto ampio uso della Rete per diffondere il proprio Vangelo del terrore. Una minaccia eversiva alimentata anche dalla contiguità con l’estrema destra europea e dalla colpevole indifferenza delle piattaforme digitali.

Il 22 luglio 2011, Utoya è diventato il nome di una nuova geografia della violenza che ha ridisegnato l’Europa a partire, a sorpresa, dalla Norvegia. Utoya è entrata nell’immaginario politico di molti come territorio del terrore ancor prima di essere conosciuta come isola nel sud della Norvegia. Un territorio che si estende da Regjeringskvartalet, il quartiere governativo nel centro di Oslo dove Anders Breivik fece esplodere un’autobomba che uccise otto persone, fino all’isola vera e propria dove ne uccise 69. E le cui propaggini di sangue si estendono a città come Oak Creek, nel Wisconsin, dove nell’agosto dell’anno successivo Michael Page, un suprematista bianco, uccise sei persone in un tempio sikh; o Newton, nel Connecticut, dove nel dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza – che si dilettava a raccogliere ritagli sull’attacco di Breivik – entrò in una scuola elementare uccidendo 20 bambini e sei adulti. O a Charleston, nella Carolina del Sud, dove nel giugno 2015, con lo scopo di iniziare una guerra razziale, ebbe luogo una sparatoria di massa in una chiesa della comunità afroamericana. Fino al Regno Unito, dove nel 2016 Thomas Mair uccise Jo Kox, parlamentare laburista. O a Monaco di Baviera, dove il 22 luglio di quell’anno, esattamente a distanza di cinque anni da Utoya, un simpatizzante di estrema destra uccise nove persone in un centro commerciale. E ancora, a Quebec City, dove nel gennaio 2017 Alexandre Bissonnette freddò cinque persone nel Centro culturale islamico. O a Londra, dove nel giugno di quell’anno Darren Osborne investì con la sua auto un gruppo di passanti musulmani uccidendone uno e ferendone nove. A Pittsburgh, dove il 27 ottobre 2018, Robert Gregory Bowers uccise 11 persone nella sinagoga Tree of Life. A Danzica, dove nel gennaio del 2019, il sindaco Pawel Adamowski fu accoltellato a morte su un palcoscenico all’aperto da un 27enne che dopo l’omicidio presentò il suo atto al pubblico inorridito come una vendetta politica. A Christ Church, in Nuova Zelanda, dove nel marzo 2019 Brenton Harrison Tarrant, un simpatizzante di estrema destra australiano, entrò nella moschea Al Noor uccidendo 51 persone. Per tornare in Germania, dove nel giugno del 2019 un uomo con legami neonazisti entrò nel giardino di Walter Lübcke, leader politico locale vicino ad Angela Merkel, e gli sparò alla testa uccidendolo sul colpo. E poi El Paso, in Texas, dove due mesi dopo Patrick Crusius entrò in un negozio Walmart per prendere di mira clienti e lavoratori ispanici, uccidendo 23 persone. Ad Halle, nella Germania orientale, dove in ottobre di quell’anno Stephan Ballietin cercò di entrare in una sinagoga con l’intenzione di uccidere il maggior numero possibile di fedeli durante una festività ebraica. Non riuscì nel suo intento ma uccise due persone a caso nelle strade circostanti. Ad Hanau, vicino a Francoforte, dove Tobias Rathjen, un estremista di destra, nel febbraio 2020 uccise 11 persone, durante una sparatoria in un shisha bar. Fino a Reading, nel Regno Unito, dove nel giugno dello scorso anno un uomo ha accoltellato a morte tre persone in mezzo alla strada dopo una dimostrazione di Black Lives Matter. Tutti questi sono domini di Utoya.

Questo inventario del terrore non è affatto esaustivo. Il catalogo completo dovrebbe includere non solo attentati minori in cui il numero di morti è in confronto trascurabile – se mai si può parlare anche solo di una morte trascurabile – ma pure tentativi falliti come quello del tenente della guardia costiera statunitense Christopher Hasson, che stava pianificando un attacco dello stesso tipo quando è stato arrestato nel 2019; o quello di Liam Lyburd, che aveva accumulato un piccolo arsenale a Newcastle, nel Regno Unito, per attaccare ex compagni del college. O ancora quello di Travis Owens che è stato arrestato negli Stati Uniti alla fine di giugno mentre stava pianificando di bombardare Washington DC e colpire persone afroamericane. Questo elenco è considerevolmente più lungo del primo e per la gran parte avvolto dal segreto negli uffici delle agenzie investigative nazionali di tutto il mondo.

Jihadisti ariani

Molti di questi episodi di estrema violenza sembrano risiedere nello strano interstizio tra ragione e follia in cui albergano devozione dottrinale e certezza incontrovertibile. È rilevante che i dibattiti che inevitabilmente seguono questi orrori alludano regolarmente alla presunta “follia” dell’assassino. Abbastanza spesso vengono prodotte cartelle cliniche per spiegare come l’atto sia frutto di una persona che non appartiene alla comunità, né alla ragione. Ma questo approccio è sbagliato. La violenza cui abbiamo assistito a Utoya e nel resto di questo arcipelago di orrori ha tutti i segni della brutalità scatenata da ragioni religiose.

Atti di violenza di questa portata, che siamo abituati ad aspettarci dagli dei e dai loro emissari, sembrano difficilmente conciliabili con le ragioni dell’essere umano e i suoi dubbi. Eppure, in molti di questi casi, le ragioni sono state esposte in lunghi trattati. Breivik ha lasciato le sue motivazioni nero su bianco in pi…

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