Quando finì Bretton Woods

Cinquant’anni fa la storica decisione del presidente Nixon di sospendere il sistema creato sul finire della Seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods.

Il 15 agosto del 1971, esattamente cinquant’anni fa, il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, in un discorso televisivo dal titolo “Una sfida per la pace”, sospendeva la possibilità per i governi e le banche centrali del mondo di convertire dollari in oro al prezzo ufficiale, che risaliva al 1934, di 35 dollari l’oncia. Nonostante il richiamo a un futuro di prosperità e di pace, il discorso provocò sgomento nell’opinione pubblica occidentale.  

Sul piano simbolico, la decisione segnava la fine dell’idea, radicata nei secoli, che il valore della moneta in ultima istanza fosse garantito dal suo legame con un bene materiale, l’oro, e non solo da una convenzione sociale. Allo stesso tempo, era facile interpretare il nuovo status del dollaro come un segnale d’incipiente debolezza da parte degli Stati Uniti, fino a quel momento potenza egemone dell’Occidente. 

Nella sostanza, la decisione di Nixon sanciva la fine degli accordi di Bretton Woods, così chiamati dal nome della località del New Hampshire dove, nell’estate del 1944, si erano riuniti i rappresentanti delle nazioni che si avviavano a vincere la Seconda guerra mondiale o erano rimaste neutrali (l’Italia ovviamente era assente). La conferenza si proponeva di stabilire le regole per il sistema dei pagamenti e il commercio internazionale che sarebbero dovuti entrare in vigore al termine del conflitto per garantire una ordinata ripresa dell’attività economica. Elemento centrale del nuovo ordine era un sistema di parità fisse tra le diverse valute e il dollaro e tra quest’ultimo e l’oro. Gli accordi di Bretton Woods avevano inoltre portato alla creazione di due nuove istituzioni tuttora esistenti: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e …

Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.