Afghanistan, tutta colpa di Joe Biden? Falso!

La disfatta politico-militare occidentale a Kabul non è solo responsabilità di Joe Biden e dell’Amministrazione USA ma anche della NATO, l’istituzione che a fianco (e spesso al seguito) di Washington ha condiviso la guerra ventennale e il suo tragico epilogo.

È tutta colpa di Joe Biden! È il tormentone di fine estate rilanciato da tutti i maggiori network radio-tv internazionali, la condanna unanime del capo dell’amministrazione USA per la disfatta politico-militare occidentale in Afghanistan e il tragico epilogo con la disordinata fuga da Kabul. Mr Biden è sotto il fuoco incrociato di tutti: capi di stato e leader politici di mezzo mondo, analisti e geostrateghi, i vertici militari di quasi tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica. Dopo i sanguinosi attentati all’aeroporto di Kabul e le ennesime vittime tra le forze armate USA, il suo predecessore, Donald Trump, ne ha chiesto pubblicamente testa e dimissioni, immemore di aver tracciato lui con i suoi consiglieri l’iter per lo sganciamento dal ventennale conflitto afgano.

Certo, le fragilissime e patetiche uscite pubbliche del presidente degli Stati Uniti d’America stanno davvero facilitando il gioco globale di criminalizzare un singolo capro espiatorio per l’inglorioso esodo dal teatro afgano e la rioccupazione talebana. Ma è davvero tutta solo colpa di Joe Biden? A noi, sinceramente, sembra di no. La caccia all’utile idiota, i vuoti di memoria generale, le false o incomplete narrazioni e gli opportunismi di maniera, ci appaiono invece un modo, anzi forse proprio una scelta concordata, per occultare o perlomeno ridimensionare le altrettanto gravi responsabilità della NATO, l’istituzione che a fianco (e spesso al seguito) di Washington ha condiviso la disastrosa disavventura e la debacle finale in Afghanistan.

È stato in ambito NATO che sono state pianificate e decise le missioni di “esportazione della democrazia” e “pacificazione” dell’Afghanistan. Sono stati gli alleati NATO a fornire truppe, aerei e carri armati per le operazioni di guerra, assumendosi anche l’onere dei comandi d’area e dell’addestramento e del riarmo delle ricostituite forze armate e di polizia afghane. E sono stati numerosi i partner NATO ad assicurare a Washington basi e installazioni militari nel vecchio continente (Ramstein in Germania, Moròn e Rota in Spagna, Aviano e Sigonella in Italia, ecc.) per gli attacchi aerei – anche con l’ausilio dei famigerati droni killer – che tante vittime hanno mietuto tra i civili afghani e del confinante Pakistan. E perlomeno nelle dichiarazioni pubbliche e ufficiali, la NATO ha sostenuto unanimemente il processo di “dialogo” avviato dall’amministrazione Trump con i leader talebani, sancito nel febbraio 2020 con l’accordo sul progressivo ritiro dei militari USA e l’avvio a Doha (Qatar) dei co…

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.