Capitalismo e imperialismo

La categoria di imperialismo è diventata obsoleta? Nient’affatto. Non riconoscere l’imperialismo come tendenza sistemica del capitale metropolitano alla dominazione di particolari regioni periferiche significa perdere l’occasione per comprendere sia il colonialismo, sia il capitalismo contemporaneo.

Un estratto dal volume “Una teoria dell’imperialismo. Il viaggio delle merci” di Prabhat Patnaik e Utsa Patnaik (Meltemi editore) in libreria.

Il termine “imperialismo”, sebbene utilizzato ampiamente nei paesi del terzo mondo, è diventato piuttosto raro nelle analisi radicali sviluppate nei paesi capitalisti avanzati. Termini come “impero” lo hanno progressivamente sostituito [1]. Anche quando, occasionalmente, viene usato, serve a descrivere la tendenza della principale potenza capitalista, gli Stati Uniti, a esercitare egemonia politico-militare sulle nazioni del terzo mondo (singolarmente o con il supporto dei suoi alleati), senza però riferimenti alla necessità economica di fare ciò. Anzi, oggi molti marxisti noti rifiutano esplicitamente il termine “imperialismo” nel senso di tendenza sistemica del capitale metropolitano alla dominazione di particolari regioni periferiche.

Questa riluttanza all’utilizzo del termine “imperialismo” non sorprende affatto. Il modo in cui questo concetto è stato utilizzato fino ad alcuni decenni fa presuppone una divisione del mondo in due parti, con i lavoratori e i capitalisti di una di queste parti situati in una posizione migliore dei loro corrispettivi dell’altra. In quella condizione, aveva senso parlare di una tendenza sistemica considerata basilare per l’imperialismo. Ma, nel contesto contemporaneo, la globalizzazione ha realizzato due trasformazioni fondamentali. Da una parte, in molti paesi del terzo mondo, come l’India, la grande borghesia interna non solo è strettamente integrata con il capitale finanziario internazionale, ma ha anche prosperato ed è progredita: la lista dei miliardari più ricchi al mondo oggi non comprende solo i nomi di persone che provengono dai paesi capitalisti avanzati, come succedeva una volta, ma anche un discreto numero di nomi cinesi o indiani.

Dall’altra parte, il capitale è libero di muoversi tra le nazioni e di installare nel terzo mondo stabilimenti per la produzione di beni destinati non solo al mercato locale, ma all’esportazione nell’intero mercato mondiale. Dal momento in cui questa libertà non è solo virtuale, ma effettivamente esercitata dal capitale metropolitano (che colloca in Cina e da altre parti stabilimenti industriali funzionali a rifornire il mercato mondiale), oggi i lavoratori dei paesi metropolitani si trovano in competizione con lavoratori del terzo mondo che hanno retribuzioni più basse. Essi non sono più protetti rispetto ai bassi salari che, nel terzo mondo, sono la norma.

Nell’era della globalizzazione è venuta meno quella segmentazione dell’economia mondiale tale per cui i lavoratori di una parte del mondo vedevano aumentare i loro salari più o meno in sincrono con l’incremento della produttività lavorativa, mentre i lavoratori dell’altra parte restavano bloccati a un livello di sussistenza (in realtà nemmen…

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