La maternità ai tempi della pandemia (PODCAST)

Su 249 mila donne che hanno perso il lavoro nel 2020, ben 96mila sono mamme con figli minori. Di maternità, lavoro e di un mondo ancora fortemente maschilista parliamo in questo podcast con Karen, fondatrice di “Cara, sei maschilista”, e Patrizio Cossa di “Barpapà”.

Il 2020 è stato un anno che ha toccato nel profondo la nostra società sotto ogni punto di vista. A pagarne le conseguenze maggiori sono state ancora una volta le donne, le madri nello specifico.

I dati raccolti da Save the Children ci dicono che su 249 mila donne che hanno perso il lavoro nel corso del 2020, ben 96mila sono mamme con figli minori, per lo più sotto i 5 anni. Mamme che hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse per la necessità di seguire i figli più piccoli.

Se da una parte il bonus babysitting può aver aiutato le famiglie con lavori indipendenti, dall’altra ha escluso una fetta importante di lavoratori e lavoratrici.

Dipendenti costretti allo smartworking con figli piccoli a casa o lavoratori a prestazione occasionale.

Perché in famiglia sono state perlopiù le madri ad aver rinunciato al lavoro? Perché la scelta è ricaduta sul genitore con lo stipendio più basso e che non a caso in Italia è quasi sempre di sesso femminile.

Viviamo e cresciamo in una società ancora fortemente maschilista, di un maschilismo sdoganato perché si insinua in primis nel nostro linguaggio, forgiandone il pensiero. Abbiamo cercato di analizzarlo da due punti di vista differenti: quello di Karen, fondatrice di Cara, sei maschilista, una community su Facebook diventata poi pagina instagram e podcast e Patrizio Cossa fondatore insieme a Marco Fagnani e Beppe Lamberto di Barpapà, un ritrovo virtuale di tanti papà alla ricerca di consigli e strumenti per cominciare a svolgere un ruolo che per anni è stato culturalmente assegnato alla donna.

Due realtà che ci insegnano a guardare da un’altra prospettiva le nostre abitudini, per provare passo dopo passo a cambiarle.

Ascolta “La maternità ai tempi del COVID 19” su Spreaker.

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.