Afghanistan: mitra e preghiera

Estate 1979. Ettore Mo, reporter di guerra del “Corriere della Sera”, è il primo giornalista occidentale a entrare in Afghanistan. Nel primo articolo da Peshawar, uscito sul quotidiano il 15 luglio 1979 e che qui riproponiamo, Mo intervista l’ayatollah Gulbuddin Hekmatyar, capo del più consistente gruppo islamico che allora combatteva il regime di Kabul e che oggi è tornato a svolgere un ruolo di primo piano in Afghanistan.

PRESENTAZIONE
di Giangiacomo Schiavi, editorialista del ‘Corriere della Sera

Sulle montagne del Panshir, quando la storia la scriveva il misticismo barricadiero dei mujaidinn in guerra contro l’invasione sovietica, il primo giornalista occidentale a entrare a Kabul si chiamava Ettore Mo. Era l’estate del 1979. Non c’erano i macabri annunci dei soldati talebani che oggi lapidano donne e impongono con violenza la sharia, non c’erano immagini e social per descrivere le miserie umane della guerra e documentare esodi e fughe disperate: piovevano granate e missili Katiuscia sotto gli occhi del mondo occidentale, lo stesso che oggi appare disgustato dall’abbandono americano, e c’era chi vedeva nella resistenza afgana una possibile via per tirar fuori dal medioevo un popolo stremato da violenze e fanatismi. Ettore Mo aveva 47 anni vissuti rincorrendo il sogno del giornalismo: gavetta lunga, garzone nei bar, bibliotecario ad Amburgo, mozzo e stewart sui mercantili inglesi, prima di essere ammesso come vice nell’ufficio di corrispondenza londinese del Corriere della Sera, a fare da reporter per il futuro direttore, Piero Ottone.

In via Solferino era arrivato più tardi, come cronista agli spettacoli, e questa sembrava la sua destinazione fino a una domenica d’estate quando, in assenza di grandi firme, venne spedito a Teheran, dove la rivoluzione islamica aveva deposto lo Scià e portato l’ayatollah Khomeini al potere. Al ritorno venne destinato al festival di Sanremo, ma in corridoio trovò il direttore Di Bella, che lo investi sul campo cronista di guerra: “Prepara la valigia e parti per Kabul, assediata dai carri armati sovietici”. A Kabul però bisognava arrivarci, a dorso di mulo, in sella a una sgangherata motocicletta o a piedi attraverso montagne coperte di neve. Mo ci arriva per primo, attraversando la valle di Kunar, dove vede una piccola zattera che galleggia su vesciche di animale gonfie d’aria e uomini che armeggiano nella vorticosa corrente. Raggiunge il quartier generale dei ribelli, parla con i loro capi, Hekmatyar che mette il Corano sulla canna della rivoltella e Massoud, “il leone del Panshir”, che diventerà suo amico fraterno. Racconta quel che vede, descrive con crudo realismo fatti, personaggi, drammi di uomini e donne che hanno negli occhi la stessa fuggevole speranza catturata in una celebre foto di Mc Curry.

I reportage di Mo dall’Afghanistan hanno fatto storia, ma più di quarant’anni dopo la storia riporta indietro le lancette, arretra come le democrazie in un Paese dove gli arroganti trionfano sui popoli perduti. Gulbuddin Hekmatyar “l’ingegnere” è di nuovo lì, trent’anni dopo, a progettare un futuro oscuro per migliaia di donne. Questo che pubblichiamo è il primo articolo da Peshawar, uscito sul Corriere nel luglio 1979. Mo entra nel covo della resistenza islamica e si prepara a raggiungere Kabul.

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L’articolo che segue è per gentile concessione dell’autore Ettore Mo e della testata Corriere della Sera su cui l’articolo apparve la prima volta il 15 luglio del 1979

Afghanistan: mitra e preghiera

di Ettore Mo

PESHAWAR (Pakistan) – Il presidente dell’Afghanistan, Noor Mohammad Taraki, li chiama criminali. Il vice-premier e ministro degli esteri, Hafizullah Amin, eminenza grigia del regime marxista filosovietico di Kabul, li chiama banditi. “Noi non siamo né criminali né banditi – dicono loro – siamo afghani e figli dell’Islam: e abbiamo intrapreso la lotta armata per liberare il paese da un governo che persegue una politica e una ideologia estranee alla nostra tradizione e contrarie alla nostra fede”.

Siamo nel “covo” dello “Hezb – i – Islami Afghanistan”, il più consistente e battagliero dei gruppi islamici che hanno dichiarato guerra al regime di Taraki: “il covo” è una casetta bianca a due piani nella parte meridionale di questa sgangherata città pakistana a una quarantina di chilometri dal confine afghano. Tutta gente scappata via.

Qui pregano e organizzano la resistenza. Sono quasi tutti molto giovani con baffi e barbe nere attorcigliate attorno al mento come cespugli selvaggi: e c’è intorno un’aria di misticismo barricadiero. Dai vari fronti arrivano notizie buone e cattive. Quelle cattive vengono accolte in silenzio.

Pedinamenti

Non è stato facile mettersi in contatto con lo “Hezb”. I giornalisti che arrivano in questa zona calda di frontiera sono controllati e pedinati. I pakistani hanno dei problemi: non intendono schierarsi apertamente contro il regime di Kabul né contro la superpotenza (leggi URSS) che lo sostiene; al tempo stesso, non vogliono alienarsi i fratelli musulmani afghani che potrebbero anche, alla fine (l’Iran insegna), trovare una clamorosa e vittoriosa via d’uscita. E allora chiudono un occhio e ne chiudono due; e fanno posto – nelle zone tribali di frontiera – alle migliaia (più di centoventimila) di profughi afghani affamati e nullatenenti; e non ti seguono (o ti seguono a distanza) se il risciò ti conduce strombettando dentro il caos della più immonda miseria umana al quartier generale dei ribelli.

L’ayatollah degli afghani, in questo momento, è un’ingegnere di trent’anni uscito dall’università di Kabul, Gulbuddin Hekmatyar. Bell’uomo, bella statura, bella barba. Gli occhi fanno paura. Sono gli occhi di uno che frequenta il cielo e Maometto, che ha il filo diretto con Allah; uno che ha fatto la contestazione come Capanna ed è stato in carcere; e che adesso, senza elicotteri e carri armati e micidiali ordigni, ha migliaia e migliaia di mujadin in montagna vestiti solo d’eroismo e dice a Taraki, con l’insolenza dei santi, vecchio mio è venuta l’ora, togli il tuo immondo deretano dalla sedia.

Hekmatyar ha le carte in regola: “Sono stato in prigione sotto il re Zaher – dice – e poi sotto Daud, ucciso nel colpo di Stato dell’aprile ’78. So che Taraki ha promesso una bella taglia sulla mia testa ma non è riuscito a beccarmi. Però mio padre e i miei fratelli, arrestati ai tempi di Daud, sono ancora in carcere adesso, non li vedo da anni, forse non li vedrò più. La radio di Kabul mi perseguita, cercano l’ingegnere, ma io non casco nelle mani loro, puoi star tranquillo”.

Ha le sue precauzioni. Quando esce, è seguito dai body-guards che nascondono sotto i vestaglioni di lino bianco i mitra a canna corta. L’intervista con lui avviene a porte chiuse: i suoi stretti collaboratori, l’interprete col registratore, chi entra deve bussare: e lui, Hekmatyar, tiene sul piano della scrivania, senza la minima ostentazione, un pistolone lungo così con la canna forata e una cintura di cuoio piena di cartucce.

Ma quando è l’ora della preghiera, pianta lì tutto e va a pregare. È il mullah. Tutti si tolgono le scarpe, tutti s’inginocchiano, tutti aprono le mani per una grazia che sicuramente verrà dal cielo, tutti maledicono Taraki…

Accanto allo “Hezb” ci sono altre formazioni islamiche. C’è lo “Jami’at-i-Islami of Afghanistan”, c’è lo “Harakat-i-Inquilab”, c’è il “National Liberation Front”, che dovrebbe accogliere alcuni di questi gruppi. Ma Hekmatyar parla chiaro: “Noi – dice – siamo stati l’avanguardia. Abbiamo cominciato dieci anni orsono. Abbiamo combattuto la monarchia di Zaher, il dispotismo di Daud e, adesso, il marxismo leninismo di Taraki. Eravamo soli. Dov’erano, allora, questi partiti? Io non me li ricordo. Lo “Jami’at-i-Islami of Afghanistan” ha un anno di vita; lo “Harakat” avrà sei mesi. Non sono organizzati. Noi abbiamo dieci anni d’esperienza: e siamo stati noi a dare il via alla rivolta”

Per Hekmatyar, lo “Hezb” ha l’esclusiva della lotta armata: e una parziale conferma l’ho avuta sui fronti della provincia di Kunar dove i comandanti militari musulmani hanno sui muri dei bunker l’effigie dell’ingegnere e dove, al momento del reclutamento, ti danno un cartoncino verde coi simboli del suo partito: “Parlo fuori dai denti – dice Hekmatyar – non mi fido di certi gruppi che sventolano la bandiera islamica ma che sotto sotto, vogliono sbarazzarsi di Taraki per restaurare la monarchia. E magari trovano gli americani pronti a finanziarli. Ma devono fare i conti con noi: e noi i conti li facciamo col fucile”.

Ma quattro passi più in là, un vecchio signore con la barba caprina da Ho Chi Min, il dottor Mohammad Musa Tawana, che ci viene presentato come membro dell’esecutivo dello “Jami’at-i-Islami of Afghanistan”, respinge quelle accuse: “Noi – dice – abbiamo cominciato la lotta armata contro Daud, nel ’75, ma già prima ci eravamo opposti al re, perché non rispettava l’ideologia dell’Islam. Anche Daud, che soffiò il potere al monarca nel luglio del ’73 con un colpo di stato incruento, aveva l’appoggio dei comunisti e ci perseguitava. Ma con Taraki le cose sono molto peggiorate. Sapevamo che l’obiettivo suo e del suo partito il Khalq (che vuol dire proprio partito del popolo), era di schiacciare e distruggere la nostra fede per edificare una società marxista”.

Si trattava, dicono, di cambiare l’anima stessa del paese: un progetto ardito ma non irrealizzabile se affidato a gente del mestiere. Ed eccoti arrivare gli advisers o supervisors russi (circa tremila) che s’infilano nell’esercito e nell’aviazione, negli istituti e nei ministeri (economia, finanza, planning, interni, difesa, eccetera), nell’Intelligence Service afghano, AGSA, che finirà col somigliare al KGB. A Kabul si apre un Russian Centre con una biblioteca ben fornita dove ti danno, gratis, lezione di russo.

Nelle vetrine delle librerie, racconta uno studente appena fuggito in Pakistan, imperano i testi della filosofia marxista che è la “nuova religione di Stato”. Gli appartamenti del complesso Mecrurian (palazzine di quattro piani costruite recentemente nella capitale per ospitare i senza tetto afghani) vengono destinati alle famiglie degli esperti sovietici. Ma i russi, mi assicurano, non hanno vita sociale: quando non li odia, la popolazione li snobba, li sfugge, li ignora.

Un’altra organizzazione politico-militare che contesta a Hekmatyar l’esclusiva della lotta armata è il “National Front of Islamic Revolution of Afghanistan”. L’uomo che la dirige, Sayed Ahmad Gailani, ha 47 anni, fuggì dal paese sei mesi fa, veste con molta proprietà abiti tradizionali o di taglio occidentale, parla sottovoce. Dicono sia molto ricco, non svolge alcuna professione, si considera semplicemente un leader spirituale: “Ho creato il Fronte – dice – appena arrivato in Pakistan, raggruppando sotto di esso alcuni movimenti islamici come il “Jami’at-i-Islami”. I nostri membri sono impegnati in azioni di guerra. In questo momento ne abbiamo circa ottantamila dislocati sui vari fronti. Più del 70 per cento del paese è attualmente sotto il controllo delle forze rivoluzionarie islamiche. È vero, manca la capitale e le grandi città ma bisogna tener presente che il 90 per cento della popolazione vive nei distretti rurali”.

Come Hekmatyar, Gailani lamenta lo scarso equipaggiamento dei suoi uomini, la mancanza di mezzi, armi pesanti, munizioni, aerei: “Combattiamo – dice – in condizioni di abissale inferiorità. E la nostra superiorità numerica rispetto a un esercito di soli novanta o centomila soldati non serve a molto. Loro dispongono di un’artiglieria potente e sofisticata, hanno carri armati ed elicotteri. Noi possiamo anche abbatterli o catturarli, come si è fatto, ma la Russia è lì pronta a mandarne di nuovi. Ci mancano anche delle stazioni radio, come invece avevano in Iran. Per avere una stazione radio bisogna prendere Kabul. Ma allora la guerra sarebbe finita”.

Ma i russi?

La speranza di Gailani è che la guerriglia si concluda prima dell’inverno: “Abbiamo avuto finora dei buoni successi militari, ma ciò che più conta, dal momento che nessun paese ci è venuto incontro con forniture di armi, è che continui l’ammutinamento tra le file governative. Solo poche settimane fa nella provincia di Paktya due intere brigate con gli ufficiali e tutto l’armamento sono passate dalla nostra parte. Taraki se ne preoccupa molto e perciò ha disposto che si usino più gli aerei che le truppe di terra”.

Ma i russi? “Ecco – dice blandamente Gailani che è molto più diplomatico di Hekmatyar – noi pensiamo che i russi, così pragmatici e realisti come sono, non si lasceranno coinvolgere fino al disastro finale. Voglio dire che non sarebbero disposti ad aiutare fino all’ultimo un regime che non ha più neanche un minimo di appoggio popolare. Quando si accorgeranno che la rivoluzione vince, si tireranno da parte”. Nel covo dello “Hezb”, Gailani è guardato con scarsa simpatia, non piace quel suo vestirsi da inglese, infastidisce il suo fair-play diplomatico, forse irrita un poco il fatto che questo profugo di lusso abbia – mi dicono – dodici o tredici case, gli rimproverano anche certe ingenuità nei piani strategici che avrebbero messo a repentaglio (o addirittura sacrificato) la vita di centinaia di suoi partigiani.

Non gli si può negare coraggio personale e la giusta scelta del fronte, ma resta il fatto – mi dice Gul, membro del settore cultura dello “Hezb” – che “il 90 per cento dei musulmani che combattono contro Taraki riconoscono in Hekmatyar il loro leader, il vero capo carismatico della rivoluzione: il Khomeini, se si vuole, dell’Afghanistan islamico”.

Come Khomeini, Hekmatyar vuole istituire “un puro governo islamico, niente di più, niente di meno”. Ma nel suo giudizio su quanto è avvenuto e sta avvenendo in Iran, sostanzialmente positivo, c’è qualche riserva: “La sola cosa che rimproveriamo a Khomeini è di non aver completamente buttato fuori e distrutto i comunisti. Nel nostro governo non ci sarà posto per un solo comunista. I comunisti, con l’aiuto dei sovietici, hanno commesso crimini inenarrabili. E per loro non ci sarà posto nell’Afghanistan islamico”.

Se osi suggerirgli che tutto ciò è contrario ai principi di una vera democrazia come noi la intendiamo in Occidente, Hekmatyar ha un lampo negli occhi bellissimi e feroci; poi, sorridendo, estrae dal cassetto un libro nero, il Corano, e lo depone, chiuso, sulla canna della rivoltella: “My dear friend – mi dice allungando una mano sulla copertina – la nostra democrazia è tutta qui. Qui è la nostra filosofia e la nostra teologia. Qui è rinchiusa la nostra politica economica e sociale. Se Taraki fosse un vero musulmano non avrebbe bisogno d’altro: né di Marx né di Lenin né di Ho Chi Min”. Hekmatyar va in cortile a pregare Allah con lo stuolo dei suoi collaboratori: quando torna è più che mai ottimista, deve aver avuto buoni messaggi dal cielo. “Con le armi rubate al nemico – dice – siamo riusciti ad assicurarci il controllo del 75 per cento del Paese. E queste rapine sono sempre più copiose: cannoni mitraglie autoblindo munizioni. Qualche scemo continua a dire che è la Cina o la Libia o l’Iran o l’Arabia Saudita a fornirci le armi. Tu sei stato al fronte, avrai visto coi tuoi occhi. La sola superpotenza che ci rifornisce di materiale bellico è la santa Russia, ma perché glielo rubiamo. Taraki ha fatto male i suoi conti e ha commesso un grosso errore: come lo Scià in Persia ha sottovalutato il sentimento religioso del suo popolo. I miei ragazzi possono anche andare scalzi in montagna con un tirasassi invece del fucile: ma si lasciano ammazzare piuttosto di cedere. Il giorno della resa dei conti è vicino. Se vai a Kabul, diglielo a Taraki. Digli che l’ingegnere lo saluta”.

FOTO: Due immagini di Sharbat Gula a 17 anni di distanza, fotografata da Steve McCurry. L’immagine di sinistra pubblicata molti anni fa sulla copertina del National Geographic è stata per molto tempo il simbolo delle guerre senza fine in Afghanistan – ©NATIONAL GEOGRAFIC/ANSA

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