Speciale Antonio Cederna a cento anni dalla nascita
«Il grado di civiltà urbanistica di un paese può essere illustrato anche solo da quanto esso fa per la gioventù, per offrire a bambini e ragazzi, nella vita di città, le migliori condizioni per il gioco, lo svago e le attività del tempo libero»
Antonio Cederna, Il Mondo, 27 agosto 1963
Qualche tempo fa ho ritrovato una vecchia cartolina di mio padre. Non una cartolina qualsiasi: me l’aveva spedita da Stoccolma nel 1972, inviato del Corriere della Sera al seguito della prima storica Conferenza mondiale sull’ambiente. Sul fronte, in primo piano, un gruppetto di bambini biondissimi, circondati da altalene, scivoli, castelli e pony. Un parco giochi da sogno. Sul retro, la scritta lapidaria: «Ti piacerebbe? Papà». Il suo modo austero, da padre di altri tempi, di esprimermi affetto. Forse il timido tentativo, involontariamente sadico, di condividere con il figlio più piccolo il senso di una passione civile.
Tante cose sono state dette e scritte su mio padre da quando ci ha lasciato, un quarto di secolo fa. «Cederna, il difensore del Belpaese». «Il paladino dell’ambiente». «L’Appiomane». Nella narrazione corrente prevale il ricordo delle sue battaglie contro gli sventramenti, contro la distruzione e la svendita dei beni culturali e ambientali, contro la speculazione edilizia, contro la cementificazione, la rapallizzazione, le autostrade inutili. «L’uomo che voleva fermare il cemento». «L’intellettuale che aveva il coraggio di dire di no».
Pochi raccontano la pars costruens, senza la quale non si capisce l’altra: il suo impegno ante litteram per il verde, per la costruzione di città più efficienti e moderne, per il risanamento delle borgate, per il potenziamento del trasporto pubblico e la diffusione dei servizi elementari, per la promozione dei beni culturali e dei parchi, per il rilancio dello sviluppo locale, per le energie rinnovabili, per la diffusione di una nuova consapevolezza ecologica.
Nessuno, a quanto mi risulta, ha mai menzionato la sua ricchissima produzione di articoli in nome dell’infanzia, per rivendicare parchi, aree gioco, asili, spazi pensati e progettati per bambini, ragazzi, giovani. A partire dagli anni Sessanta, almeno uno l’anno, dai titoli sempre potenti: «Gioco proibito», «Le gambe molli», «Terra bruciata», «I bambini in gabbia», «Allegri ragazzi!», «Triste infanzia a Milano», «Poveri ragazzi italiani», «I bambini che vivranno nel Duemila», «Il diritto di giocare», «Il quartiere bocciato dai giovani», e così via. L’attenzione ai bisogni dell’infanzia ritorna in continuazione anche negli interventi di taglio più generale sull’urbanistica, la città pubblica, le periferie.
Io stesso, lo ammetto, non mi ero mai soffermato su questa storia, benché ne sia in qualche modo figlio, visto il lavoro che faccio nel campo dell’infanzia; e in quanto figlio, cresciuto davanti ai suoi occhi insieme a mia sorella Camilla e a mio fratello Giuseppe, anche in minima parte padre, come racconterò più avanti. Forse era troppo vicina per poterla vedere. Ma procediamo con ordine.
Fuori dall’inquadratura
In principio sono gli articoli contro i vandali in casa: gli architetti sventratori, i gangsters dell’Appia, i palazzinari, i rampolli ‘degeneri’ che svendono o lottizzano i giardini delle ville avite. Mio padre è nuovo a Roma. Vi si è trasferito da Milano alla fine degli anni Quaranta, dopo l’esperienza traumatica dell’esilio in Svizzera nel 1943, a soli 21 anni, per fuggire ai repubblichini. «Questa nostra è veramente una vita senza scopo, palude dello spirito – scrive in una lettera dal campo di lavoro di Magden – Mentre maneggiamo maldestramente il piccone e la pala… penso con spavento a quello che ci attende tutti domani, compito individuale da fare tremare».
A Roma completa il corso di perfezionamento in archeologia, studia storia dell’arte a palazzo Venezia, prende a collaborare con il Mondo di Pannunzio e a girare la città a piedi. Scrive ciò che vede. «Dovunque ci giriamo, il verde di Roma scompare». Un’alluvione di mattoni e ce…