Il gerrymandering e lo svuotamento della democrazia statunitense

Negli Stati Uniti è tempo di ridisegnare le mappe dei distretti elettorali. Un momento delicatissimo – giacché in gioco c’è la possibilità di dar pari voce a tutti gli elettori – cominciato sotto i peggiori auspici. E che evidenzia quanto poco democratica sia oggi la democrazia costituzionale più antica del mondo.

Negli Stati Uniti è tempo di redistricting, ossia di ridisegnare le mappe dei distretti elettorali, tanto per il Congresso federale, in particolare per la House of Representatives, quanto per le Camere e i Senati statali. Per ciò che riguarda il Congresso federale si tratta di un’attività che in forza della sezione 2 dell’articolo I della Costituzione fa seguito all’apportionment, ossia alla distribuzione dei seggi della Camera (dal 51mo al 435mo, per l’esattezza, giacché ciascuno Stato ne ha comunque diritto ad almeno uno) fra i 50 Stati in base al numero di abitanti di ciascuno, a sua volta determinato sulla scorta dei dati del censimento effettuato ogni dieci anni. Ciascun anno che finisce con uno zero comporta un nuovo censimento e un corrispondente (re)apportionment e (re)districting nell’anno successivo, che tenga conto dei mutamenti demografici avvenuti. Il censimento del 2020 ha stabilito che ci sono 331.108.434 residenti negli States: un incremento del 7.1% rispetto al precedente censimento, ciò che significa uno spostamento di 7 seggi elettorali all’interno di 13 Stati. Alcuni di loro dovranno eliminare dei distretti, altri aggiungerne, tutti poi potranno o dovranno ridisegnare le mappe dei rispettivi collegi per la House of Representatives federale tenendo conto dei numeri della propria popolazione. È un momento delicatissimo, giacché in gioco c’è nientedimeno che la democrazia stessa, ossia la possibilità di dar davvero pari voce a tutti gli elettori.

Com’è noto, i modi per depotenziare l’espressione del voto di alcuni fra i cittadini a vantaggio di altri sono i più vari. Alcuni elettori possono per esempio essere agevolati e altri intralciati nell’esercizio di quel diritto, che – nonostante tutti i suoi limiti e nonostante il diverso avviso di ben il 67 % dei repubblicani americani che ritiene sia un privilegio non universalmente accordabile – sta ancora al cuore del sistema democratico. Nella storia degli Stati Uniti – prima dell’introduzione del XXIV emendamento della Costituzione federale (1964) e del Voting Rights Act (1965, d’ora in poi VRA) – furono i neri d’America a essere grandemente limitati nell’espressione delle proprie preferenze elettorali dalle poll taxes o dai literacy tests. Oggi, dopo che la SCOTUS ha diminuito la capacità del VRA di mordere, stanno tornando le discriminazioni fra cittadini che riguardano l’accesso ai seggi e colpiscono questa volta soprattutto i meno abbienti in generale, fra cui spiccano com’è noto prima i neri e poi gli ispanici (sul tema si veda questo articolo su MicroMega).

Le tappe attraverso cui la Corte Suprema ha indebolito quella legge, che più di ogni altra ha eliminato le disparità nell’esercizio del più importante fra i diritti di una democrazia rappresentativa, sono due ed entrambe si collocano in tempi recenti. Nel 2013 la SCOTUS ha svuotato la quarta sezione del VRA, che imponeva ad alcuni stati del Sud – in ragione del loro passato di discriminazioni – di ottenere il placet federale in relazione a tutti i cambiamenti delle regole di voto, ivi compresi gli eventuali nuovi confini delle circoscrizioni elettorali. Nel luglio di quest’anno ha poi dichiarato conformi alla sua seconda sezione – perché non considerate discriminatorie delle minoranze – le norme dell’Arizona che restringono in vario modo l’accesso al voto, dando così sostanzialmente il via libera alle ben 33 normative che solo quest’anno gli Stati repubb…

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