Paolo Berizzi racconta Verona, la città laboratorio dell’estrema destra

L’ultimo libro del giornalista di Repubblica, sotto scorta per minacce neofasciste, è un’inchiesta sul capoluogo scaligero. Un viaggio tra gruppi skinhead, neofascisti, ultrà, movimenti ultracattolici ed esponenti politici che con questo tipo di realtà hanno stretto accordi di governo.

Nel cuore del ricco e produttivo Nordest c’è una città che, negli anni, si è affermata come il laboratorio italiano dell’estrema destra di governo. Parliamo di Verona. Qui ex skinhead, organizzatori di festival nazirock, capi ultrà che allo stato inneggiano a Hitler e tradizionalisti – per non dire estremisti – cattolici nemici giurati dell’illuminismo sono entrati in consiglio comunale dalla porta principale: candidandosi e venendo eletti nelle liste del sindaco. Ed è a Verona che Paolo Berizzi, giornalista di Repubblica che vive sotto scorta, unico in Europa, per le minacce provenienti proprio dai gruppi della destra estrema ed eversiva italiana, ha dedicato il suo ultimo libro, È gradita la camicia nera (ed. Rizzoli). Sottotitolo: Verona, la città laboratorio dell’estrema destra tra l’Italia e l’Europa.

Il libro parte da lontano, dai tempi della Repubblica di Salò, di cui Verona fu una delle capitali, e ancora prima dal 1919, dalla fondazione del “Fascio terzogenito”, nato due giorni dopo la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano, per arrivare fino a oggi analizzando quel “fertile terreno di coltura che ha alimentato l’eversione nera”, da Ordine Nuovo alla Rosa dei venti fino al Fronte Nazionale di Franco Freda. E ancora: il Veneto Fronte Skinhead e i deliri dei due serial killer che, firmandosi Ludwig, avevano come obiettivo quello di ripulire il mondo “dalla feccia morale e sociale”, sterminando prostitute, omosessuali, senzatetto, tossicodipendenti, presunti viziosi e perfino “preti scomodi” in quanto troppo progressisti. Non è un caso, quindi, se è proprio a Verona che si è tenuto il Congresso nazionale delle famiglie che, nella primavera del 2019, riunì nel capoluogo scaligero il movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQI tanto caro al senatore Simone Pillon e che vide salire sul palco una schiera di ex ministri, da Matteo Salvini (Interno e vicepremier) a Lorenzo Fontana (Famiglia) e Marco Bussetti (Istruzione). Con loro, Giorgia Meloni, il presidente del Veneto Luca Zaia e, ovviamente, il sindaco di Verona Federico Sboarina.

Per approfondire la questione, abbiamo intervistato Paolo Berizzi.

Perché a Verona “è gradita la camicia nera”?
Perché, come recita il sottotitolo del libro, Verona è il vero laboratorio dell’estrema destra italiana. È il luogo dove nasce il primo, forte asse tra i gruppi neofascisti e perfino di ispirazione neonazista e la destra istituzionale; tra chi governa la città, la destra sovranista e quella “di lotta”. Un’officina privilegiata dove ultrà della curva dell’Hellas, picchiatori e nostalgici vanno a braccetto con il potere e con un terzo pezzo di società veronese, quel mondo ultracattolico oscurantista, reazionario, antiabortista e ferocemente omofobo che da anni organizza iniziative, manifestazioni e perfino momenti di rievocazione storica come le Pasque veronesi, su cui sia l’estrema destra che la destra istituzionale hanno messo il cappello. Ecco, questi tre pezzi di Verona, estrema destra, destra istituzionale e movimenti ultracattolici, fanno sistema. E indossano la camicia nera.

Giù le mani dai centri antiviolenza: i tentativi istituzionalisti e securitari di strapparli al movimento delle donne

Fondamentale acquisizione del movimento delle donne dal basso, per salvarsi la vita e proteggersi dalla violenza soprattutto domestica, oggi i centri antiviolenza subiscono una crescente pressione verso l’istituzionalizzazione e l’irreggimentazione in chiave securitaria e assistenzialista. Tanto che ai bandi per finanziarli accedono realtà persino sfacciatamente pro-patriarcali come i gruppi ProVita o altre congreghe di tipo religioso.

Contro l’“onnipresente violenza”: la lotta in poesia delle femministe russe

Una nuova generazione di femministe russe, oggi quasi tutte riparate all’estero dopo l’inizio dell’invasione in Ucraina, sta svelando attraverso un nuovo uso del linguaggio poetico il trauma rappresentato per le donne dalla violenza maschile, all’interno di una società patriarcale come quella russa che, con il pieno avallo dello Stato, ritiene lo spazio domestico e chi lo abita soggetti al dominio incontrastato dell’uomo. La popolarità della loro poesia e del loro impegno testimonia la reattività della società russa, nonostante la pesante militarizzazione.