Prevenire e deradicalizzare al tempo del terrorismo “open source”

La propaganda jihadista corre su web e social, favorendo una radicalizzazione in solitaria che rende ancora meno prevedibile il rischio di attacchi terroristici. Come mettere l’estremista in condizioni di non nuocere a sé stesso e agli altri? Parlano Cristina Caparesi, psicologa e de-radicalizzatrice, e Federica Dieni, vice-Presidente del Copasir.

Lone actors e terrorismo “open source”

Con l’avvento di Isis e del jihadismo massmediale, siamo entrati in un’era in cui la propaganda terroristica è diventata una sorta di cloud a cui gli individui autoradicalizzati possono attingere individualmente e decidere in autonomia di passare all’azione violenta dando il loro contributo alla “causa”. Se nell’epoca matura di al-Qaeda i militanti si radicalizzavano in luoghi fisici (moschee, madrasse, luoghi di detenzione) e si preparavano militarmente alla jihad nei campi di addestramento in Afghanistan, Pakistan, Sudan, Somalia e Kenya, oggi il jihadismo open source favorisce la radicalizzazione solitaria sul web, accentuata dalla pandemia e dalle restrizioni alla mobilità. Ai mujaheddin o aspiranti tali non è necessaria l’affiliazione a una formazione terroristica strutturata: basta l’ispirazione, l’adesione ideologica a un verbo jihadista disincarnato e digitale che si muove sfruttando le infrastrutture dei social media. Incalzata dalle attività di counter-terrorism e dalle operazioni di pulizia dei contenuti jihadisti avviate dalle principali piattaforme di social networking, la propaganda violenta si è spostata tra le pieghe del deep e del dark web, e corre sulle app di messaggistica criptata come Telegram, Element, Imgur, ecc. Se questo, da un lato, ha indebolito la capacità organizzativa e cooptativa dei gruppi terroristici, dall’altro ha reso ancora meno prevedibile il rischio di attacchi.

Oggi la minaccia jihadista è più contenuta sul fronte della capacità dei gruppi terroristici di compiere attentati complessi in Europa; ma questo è solo parzialmente rassicurante, perché, di contro, sono numerosi gli attacchi realizzati dai lone actors, terroristi “vocazionali” ispirati dal jihadismo e senza legami con formazioni strutturate[1]. La radicalizzazione in solitaria, da autodidatti dell’attentato terroristico, rende i lupi solitari meno efficaci sul piano bellico, ma più pulviscolari e inafferrabili: i loro attacchi vengono realizzati con mezzi prontamente disponibili e di forte reperibilità, come coltelli e autovetture, meno letali sul piano della quantificazione delle vittime, ma più rapidi nell’esecuzione. Le loro azioni vengono concepite e realizzate nell’arco di pochissimo tempo e sulla spinta di eventi o fatti contingenti, riducendo al minimo la possibilità di intercettare la preparazione dell’attacco prima che prenda corpo nell’azione.

Come sventare la minaccia quando il lasso di tempo tra l’ultra-radicalizzazione e l’attivazione sono strettissimi? Nell’epoca del terrorismo “a prevedibilità zero” bisogna cogliere con tempestività i segnali di una situazione a rischio prima che possano degenerare nell’azione. La prevenzione diventa la parola chiave, intesa non solo come intercettazione e neutralizzazione del pericolo quando “il colpo è già in canna”, ma come tempestiva individuazione dei comportamenti a rischio prima che possano diventare terreno fertile per l’ideazione di azioni terroristiche.

Queste considerazioni, unitamente alle risultanze dell’attività di monitoraggio della propaganda sul web, che negli ultimi tempi sta evidenziando l’intensificarsi dei proclami, dei messaggi e del proselitismo in lingua italiana, e non solo araba e inglese, hanno risollecitato la presentazione di una proposta di legge per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento in Italia, che in questi giorni viene discussa …

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.