Per una società basata sul dissenso

Nella “lectio” in occasione della festa per i 120 anni della Camera del Lavoro di Reggio Emilia, Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per gli Stranieri di Siena, spiega perché la Costituzione, a partire dall’articolo 9, è stata pensata per essere uno strumento di rivoluzione. Al centro del suo intervento, la cultura.

La cultura è in questo momento il campo di battaglia contro di noi. La lotta di classe, oggi, è dall’alto verso il basso. Quanto accaduto alla Cgil a Roma, con l’assalto neofascista, ci ha fatto capire che essere antifascisti oggi non è – come disse Pertini, presidente della Camera, il 25 aprile 1970 – “abbandonarsi a un vano reducismo” ma ricordarsi che “non può esservi vera libertà senza giustizia sociale e non si avrà mai vera giustizia sociale senza libertà. E sta precisamente al Parlamento adoperarsi senza tregua perché soddisfatta sia la sete di giustizia sociale della classe lavoratrice”.

Per analizzare l’oggi possiamo partire dal fatto che il Parlamento non c’è più. Se domani Montecitorio dovesse chiudere, non succederebbe assolutamente nulla alla democrazia italiana e questo induce a farsi qualche domanda su che cosa è oggi la democrazia in Italia, e su come si può usare questa parola: “Democrazia”.

“Solo così”, diceva Pertini, “la libertà riposerà su una base solida”. Se siamo in una post-democrazia, se oggi questa libertà non c’è, è perché abbiamo rinunciato totalmente all’idea di giustizia sociale, pensando che la democrazia fosse un’altra questione e che si potesse essere così profondamente diseguali, che si potesse affidare tutto al mercato, rimanendo democratici, pur rimanendo in una democrazia. Oggi vediamo che così non è.

In questa idea di giustizia sociale di Pertini la cultura doveva essere per tutti, aperta a tutti. È un’espressione forte: aperta non solo ai cittadini ma anche a chi cittadino italiano non è, e in questo si misura il tradimento di quel progetto. La Costituzione non è dalla parte di chi l’ha fatta, ma dall’altra parte. Non è dalla parte dello stato delle cose. E questo elemento lo vedo ripetuto in una domanda che spesso mi viene chiesta da giovani studenti: “Questa Costituzione così bella di cui tanto ci parlate, che rapporto ha con il Paese in cui noi cresciamo?”. Non c’è nessun rapporto, e allora o si cambia la Costituzione e la si fa assomigliare al Paese, e ci si è provato più volte negli ultimi anni, oppure si prova a cambiare il Paese e a farlo assomigliare alla Costituzione, ed è quello che vorremmo fare noi.

Diceva un uomo di centro come Calamandrei: la Costituzione è una polemica contro lo stato delle cose. Noi italiani la rivoluzione non l’abbiamo fatta, ma è quel progetto a essere rivoluzionario, una rivoluzione promessa. Il problema è che quella promessa non è stata mantenuta. Ma è ancora lì.

La cultura o è un fatto pubblico o non esiste

Venendo alla cultura, è sempre difficile imbarcarsi in definizioni astratte, meglio quindi provare con una definizione concreta. Un giorno, mentre scendeva dal podio da cui aveva diretto la sua orchestra, Claudio Abbado, che era un uomo di sinistra, rispose così al solito giornalista che gli chiese “ma cos’è la cultura, maestro?”: “La cultura permette di distinguere tra bene e male, permette di giudicare chi ci governa. La cultura salva”.

Questa definizione che non ha grandi pretese filosofiche ma è molto chiara ed efficace, spiega perché la cultura è stata smantellata, smontata e oggi non permette di giudicare chi ci governa, non permette di distinguere il bene dal male e non ci salva affatto.

Quel giorno Abbado dirigeva l’orchestra Quattro Canti di Palermo composta da quarantacinque bambini di otto etnie diverse che si sono visti dare uno strumento in prestito e che hanno partecipato unicamente a lezioni pubbliche. Nella stessa intervista Abbado ha spiegato perché è sbagliata l’idea di “lezione privata”: perché contraddice il senso stesso della cultura. La cultura o è un fatto pubblico o non esiste. Questi bambini si sono visti dare uno strumento in prestito e hanno imparato a suonare in pubblico, in un’orchestra, non nel chiuso della loro camera. Suonavano in quel pubblico in cui la rivolta si organizza, non erano prigionieri della propria individualità.

Questa idea arriva dal Venezuela, dal maestro José Antonio Abreu. Quando Abreu spiegò come gli sia venuto in mente di dare uno strumento in mano ai ragazzi delle favelas, disse che lo aveva visto fare a suo padre e prima ancora a suo nonno, che era italiano, a Marciana, sull’isola d’Elba, dove dirigeva la banda del paese che suonava “mentre si organizzavano le lotte”. Cultura e riscatto come una cosa sola, quindi; un’idea italiana che ha fatto un lungo giro, passando dal Venezuela. Nel momento in cui lo Stato rinuncia alla missione costituzionale della cultura per tutti, c’è sempre qualcuno che prova a farla in un altro modo. E Abbado è stato uno di questi.

Cosa vuol dire cultura per tutti? Cos’è questo progetto?

Nel 1978 Norberto Bobbio disse: “Quando si parla di ‘intellettuali’ sembra sempre che ci sia un atteggiamento di presunzione. È una parola antipatica. Io penso che uno dei compiti dell’intellettuale sia di dare il proprio contributo all’avvento di una società in cui la distinzione tra intellettuali e non intellettuali non abbia più ragione di essere”. Questo è l’unico motivo per cui ha senso che esistano gli intellettuali, fare in modo che in prospettiva non esista più un mondo con questa divisione. In cui tutti possano essere intellettuali. Tradotto, avere una società critica, non conformista, una società basata sul dissenso e non sul consenso. Un progetto antimachiavellico, in gran parte utopico. Il progetto della nostra Costituzione.

L’articolo 9 della Costituzione

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