Alla Casina Valadier di Villa Borghese, a Roma, in una giornata primaverile del 1961, due amici, mentre sorseggiano un caffè, chiacchierano scambiandosi stati d’animo, idee e pensieri, inseguendo un filo che a un certo punto pare spezzarsi. Uno dei due racconta all’altro di un progetto che si blocca sul nascere, non evolve. Si incamminano nel parco e la loro conversazione si perde nei suoni attutiti di una Roma già caotica e assordante, provenienti da una strada nei paraggi, la stessa da loro raccontata in immagini qualche mese prima: Via Veneto.
“Quel giorno Federico mi parlò in modo approssimativo di un film, di un’intuizione, di un suono, di una voce che gli aveva suggerito un certo tema ma che, nello svilupparsi, a un certo momento si deformò. Lui perdette le fila di questa storia, entrò in crisi… finché molto genialmente risolse di raccontare proprio la storia del suo problema, dell’incapacità di trovare la chiave di un film che si accingeva a fare”.
Il problema trovò la sua soluzione trasformandosi, sullo schermo, nella visione cinematica di “8 ½”, forse anche grazie al fatto che, nella vita reale, tra Marcello Mastroianni e Federico Fellini si era instaurato sin dall’inizio un gioco chiamato amicizia: terra scevra da doveri, segnata solo da un fluire sentimentale che sbatte sulle pareti del reale e rincula nel sogno e nell’anarchia del pensiero. Un rapporto non regolato dal possesso ma dal desiderio di correre, anzi di rincorrersi, come due ragazzini che, cadendo, si sbucciano le ginocchia e si rialzano per ricominciare: “sul set con Fellini ci si impegna senza accorgersene”, racconta l’attore ai microfoni di Lello Bersani nel 1959 mentre gira “La Dolce Vita”; “è divertente, il clima è festoso, sembriamo una carovana di zingari”. E, qualche anno dopo, nel 1963, alla prima di “8 ½”, al cinema Fiamma di Roma, di nuovo ai microfoni dello stimolante cronista, Mastroianni si apre dichiarando che, al di là della professione, a legarlo a Fellini è un “rapporto di amicizia… da ‘La Dolce Vita’ in poi non ho mai smesso di frequentarlo, e nelle lunghe passeggiate in macchina, quando ti trascina da Viterbo a Ostia, Fellini ama aprirsi e quindi dà l’occasione al suo interlocutore di conoscerlo, o forse di non conoscerlo fino in fondo, questo è chiaro….”.
A sua volta il regista, nella stessa occasione della prima romana, ma senza aver ascoltato le parole dell’attore, gli fa eco: “Mi riconosco così profondamente in lui, in questa operazione magica che un regista fa sempre con i suoi attori, che certe volte quasi, guardandomi allo specchio, ho la sensazione di vedere la sua faccia… Non è uno scherzo, dico sul serio…”.
Un rapporto non cercato, ma sbocciato quasi da uno stato di necessità, un istintivo essere che non si cura dei paletti del dover essere. Nelle parole di Fellini, l’intesa con Marcello è “una premessa naturale”, quella che si trova con un “compagno di banco” per il quale “l’amicizia non è qualcosa di impegnativo, di etico, ma… un trovarsi, un partecipare agli stessi scherzi, agli stessi imbrogli, alle stesse bugie”. I due sembrano l’incarnazione ontologica del pensiero di Simone Weil la quale, nel suo “L’ombra e la grazia” del 1940, sagomava l’identità del rapporto amicale: “Impara a respingere l’amicizia. Desiderare l’amicizia è un grave errore. L’amicizia deve essere una gioia gratuita come quella che danno l’arte, o la vita. Bisogna rifiutarla per essere degni di riceverla: essa partecipa della natura della grazia”. E Mastroianni era la personificazione della grazia più pura, quella che deriva proprio dal “respingime…