L’egemonia statunitense a un bivio. Un declino irreversibile?

Il rovinoso ritiro dall’Afghanistan rappresenta per gli Stati Uniti l’evento più doloroso dell’anno che si chiude. Ma il crollo americano non è solo militare, bensì sociale, culturale e istituzionale.

Sul piano geopolitico, il rovinoso ritiro dall’Afghanistan – un’avventura di guerra durata 20 anni – rappresenta per gli Stati Uniti l’evento più doloroso dell’anno che si chiude: l’egemonia statunitense è finita, hanno dichiarato in molti. Se, a seguito della débâcle in Afghanistan, il declino degli Stati Uniti quale potenza mondiale sia davvero una realtà o piuttosto il frutto dell’immaginazione di quanti lo pronosticano è però un punto interrogativo. Come scrive Marco d’Eramo su queste pagine quel presagio non è, infatti, certamente nuovo e ha fatto seguito a pesanti sconfitte, come quella in Vietnam, che al contrario hanno poi segnato l’inizio di una controffensiva americana che ne ha rafforzato la vena imperiale e imperialistica e il ritorno in forza sulla scena internazionale.

Ciò che tuttavia caratterizza il momento americano presente, diversamente da quello della caduta di Saigon nel 1975, è l’associarsi della sua débâcle militare a un profondo declino sul piano sociale e culturale. Mentre gli Stati Uniti degli anni Settanta potevano a ragione essere considerati la terra delle opportunità, del progresso sociale e civile, della vittoria delle lotte per i diritti delle minoranze e dei più deboli e potevano quindi davvero rappresentare il sogno americano cantato fra i tanti da Simon e Garfunkel nel famoso pezzo intitolato “America”, a distanza di 46 anni l’American Dream pare essersi eclissato per sempre.

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Nel 1975 gli Stati Uniti chiudevano l’epoca del trentennio glorioso, coincidente con il cosiddetto periodo della prosperità condivisa, frutto di quelle politiche redistributive che avevano accorciato le distanze fra i ricchi e i poveri e dato anche agli ultimi la speranza di una mobilità sociale. Erano gli Stati Uniti che già ai tempi di F.D. Roosevelt, sotto la spinta di una sindacalizzazione operaia notevolissima e di uno spostamento a sinistra del pensiero politico, avevano messo in atto politiche sociali particolarmente straordinarie, perché attuate in un momento di fortissima difficoltà economica. Alla Great Depression, infatti, Franklin Delano Roosevelt aveva reagito non soltanto a parole, dichiarando che la paura era ciò di cui davvero bisognava aver paura (insegnamento più che mai prezioso oggi!), ma anche dando lavoro con il suo New Deal a 15 milioni di persone, prevedendo per la prima volta un sistema pensionistico, introducendo un salario minimo capace di consentire al lavoratore di mantenere se ste…

La libertà accademica negata dal fanatismo filo-israeliano tedesco. Intervista a Nancy Fraser

A Nancy Fraser è stato impedito di tenere un ciclo di conferenze all’Università di Colonia. Sebbene il tema designato fosse il lavoro nella società capitalista, alla filosofa è stato proibito di parlare per aver firmato la dichiarazione “Philosophy for Palestine”. Una violazione della libertà accademica frutto di quello che Susan Neiman ha definito il “maccartismo filosemita” della Germania, Paese in cui ormai ogni voce critica nei confronti di Israele viene messa sistematicamente a tacere.

Nuova questione morale: la sinistra e il fantasma di Berlinguer

A sinistra si continua a citare Berlinguer e a sbandierare il tema della questione morale. Ma i recenti fatti che hanno travolto la giunta regionale di Michele Emiliano ci ricordano che nel sistema Italia il marcio è diffuso ovunque, a partire dalle realtà locali. Non si può risanare tutto il sistema politico nel suo complesso ma a sinistra ci si può impegnare partendo da casa propria, cercando di costruire un nuovo autentico soggetto progressista anziché puntare ai “campi larghi”.