Quirineide. Elezioni, congiure, lotte di potere

Le elezioni presidenziali negli anni sono state lo specchio politico delle lotte di potere. E il ruolo del capo dello Stato ha allargato sempre più i limiti della sua azione. Alla vigilia di una delle votazioni più delicate della storia repubblicana, ripercorriamo le vicende dei dodici inquilini del Quirinale.

Chissà se i grandi elettori che in queste ore raggiungono Roma per le votazioni che eleggeranno il prossimo presidente della Repubblica ci staranno pensando.

Chissà quanta consapevolezza c’è in Mario Draghi, presidente del Consiglio che aspira al Quirinale, e se ne ha Silvio Berlusconi, mattatore senza scrupoli della Seconda Repubblica candidato dal centrodestra. Che queste sono tra le Presidenziali più delicate e drammatiche della storia repubblicana, con la pandemia che ha prima chiuso in casa il Paese e poi ha provocato più di 140mila vittime, che capitano in piena campagna vaccinale e nei giorni del picco dei contagi della quarta ondata. Drammatiche quasi come quella del 1992.

Quando l’attentato di Capaci al giudice Giovanni Falcone e alla sua scorta fece saltare la candidatura di Giulio Andreotti. Paolo Sorrentino nel film Il divo – a detta del regista il suo film migliore, anche più dei successivi successi internazionali – mostra la scena in cui Toni Andreotti Servillo assiste al centro dell’emiciclo di Montecitorio all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. Inamovibile, impassibile, gli occhi dietro gli occhiali persi nel vuoto, mentre dagli scranni un uomo della sua corrente si rivolge a un altro: “guarda Andreotti adesso, guardalo bene, è il momento che aspetta da tutta la vita. Guarda e impara come si sta al mondo”.

E Andreotti al mondo ma soprattutto in quell’Italia sapeva stare, vivendola da protagonista dall’Assemblea Costituente del 1946 ai giorni della fine della Prima Repubblica. Con la capacità di attraversare il potere, di gestirlo quasi senza essere visibile, interpretando il cinismo che passa oltre lo stragismo, la strategia della tensione, la perdita di un compagno di partito come Moro, le ambiguità con la mafia, tutto in nome di un potere che si perpetua.

Un uomo politico che, tanto per dirne una, ebbe il pelo sullo stomaco d’incontrare nel 1979 Stefano Bontate, allora capo di Cosa nostra, prima e dopo il brutale assassinio di Piersanti Mattarella. La prima volta convocato dal boss che si lamentò del comportamento di Mattarella, la seconda sarà Andreotti a chiedere l’incontro e spiegazioni dell’omicidio, secondo quanto riportato dalla sentenza confermata in Cassazione che lo ha dichiarato responsabile di associazione a delinquere con la mafia fino al 1980. Il tutto senza muovere un dito, senza sporgere denuncia o rivolgersi alla polizia.

Nel 1992 invece Andreotti era presidente del Consiglio, come lo è oggi Mario Draghi. L’attentato di Capaci sconvolse il Paese e il parlamento riunito in seduta comune per l’elezione del nuovo capo dello Stato, in seguito alle dimissioni premature di Cossiga. Erano cominciate a Milano le prime inchieste di Mani Pulite che poi faranno crollare il sistema politico che è stato dominus in Italia per quarant’anni. In quei gio…

L’Europa profonda

Ancor più che sostentamento nutritivo, i contadini forniscono al capitalismo globale un supporto ideologico. Nella sua astratta dimensione finanziaria, il capitalismo globale ha bisogno di elementi che ne ancorino al suolo il consenso, almeno quel tanto che è indispensabile a governare le forme Stato nazionali. Non hanno bisogno tanto dei voti di quel 2% della popolazione, né dell’apporto economico di quel 2% del pil, quanto della “comunità immaginata” che si crea intorno alla patata, all’acino d’uva o all’asparago bianco.

Una democrazia per persone in carne e ossa

La maggior parte delle proposte per rivitalizzare la democrazia, la cui crisi è ormai lampante, tendono a pretendere dai cittadini una maggiore partecipazione democratica; cosa che, in un mondo in cui le persone non hanno tempo, le rende spesso irrealistiche. Breve rassegna di possibili riforme per cittadini indaffarati.

Il governo Meloni vuole più carceri e più carcere

In Italia sta aumentando pericolosamente il paradigma repressivo. Dopo i decreti Rave, Cutro e Caivano del governo Meloni che, una volta convertiti in legge, hanno introdotto sanzioni più severe a spese soprattutto di giovani e migranti, è ora al vaglio la misura che introdurrà il reato di rivolta in carcere o in Centri di Permanenza per il Rimpatrio o altre strutture riservate a migranti «mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità». Un giro di vite che fa il paio con l’intenzione di aumentare il numero delle strutture detentive.