La libertà degli “spatriati”. Conversazione con Mario Desiati

“Le radici a un certo punto vanno tagliate, perché trattengono e non permettono di essere liberi”. In questa intervista lo scrittore ci parla del suo nuovo romanzo (“Spatriati”, Einaudi) e di letterature e vite, linguaggi e personaggi, inquietudini e ricerca di sé.

Ho incontrato Mario Desiati in un Café del centro di Berlino un grigio pomeriggio di dicembre. Ma non ci siamo rimasti molto. Mi ha chiesto di portarlo in quel cimitero ebraico nelle vicinanze di cui gli avevo appena raccontato.

Un quarantaquattrenne curioso, vigile, inquieto. Al contempo un sensibile, gentile e pacato interlocutore con cui discutere piacevolmente sulle proprie esperienze, su percorsi e linguaggi personali e collettivi.

Anima spatriata anche tu, mi ha scritto come dedica nel suo libro “Spatriati”, edito da Einaudi, romanzo che ho apprezzato in particolar modo e che mi ha fatto mettere in atto finalmente ciò che da anni, dopo aver letto “Il paese delle spose infelici” e “Candore”, volevo realizzare, ovvero incontrarlo per porgli una serie di domande sul suo lavoro e sul suo pensiero, pronte nella mia mente da tempo. E ho approfittato di un suo ulteriore soggiorno nella capitale. Desiati è stato scelto come primo writer in residence, all’interno del ciclo “Dislocazioni”, un’iniziativa dell’Istituto italiano di Cultura di Berlino.

Ciò che segue è il risultato di una piacevolissima chiacchierata su letterature e vite, anche le nostre, su linguaggi e personaggi, su paesi e città, tra un succo di frutta e un tè allo zenzero e in seguito tra sentierini e tombe solitarie, tra lapidi scolorite e folte edere nel cimitero ebraico di Schönhauser Allee.

Impossibile, Mario, non partire dal titolo del tuo ultimo libro, titolo da cui noi italo-berlinesi – ma ovviamente anche altri expat in tutto il mondo – siamo estremamente attratti. “Spatriati”, questo aggettivo derivato da un participio passato, non intende definire solo chi è espatriato, ma si riferisce a molto altro, almeno nel dialetto pugliese, a cui sei molto legato. E infatti in realtà si dovrebbe scrivere e pronunciare con una schwa finale, dico bene?

In dialetto martinese è scritto proprio così spatriètə, ed è una parola che non cambia né col maschile, né col femminile, né col singolare, né col plurale. Come tutti gli aggettivi, la schwa era usata in molti dialetti meridionali. Oggi fa una certa impressione in tempi di dibattito sulla inclusività della lingua. Spatriato è un termine che raccoglie diversi significati, oltre a quello di essere andato via. Sta anche per irregolare, vagabondo, ramingo, balordo, sparito, ucciso, sciatto, interrotto. Potrei continuare a lungo, perché da quando è uscito il romanzo, molti lettori pugliesi mi segnalano nuove sfumature di quella parola. Di certo lo spatriato è colui che è fuori da un’idea comune, da una convenzione. Credo che molte siano le anime spatriate, alcune felici di esserlo, altre tormentate.

Forse è una conditio sine qua non per tutti gli scrittori, cioè quell’urgenza dettata da una inquietudine personale, una particolare instabilità e incertezza esistenziale, anzi proprio da demoni interiori da gestire, indispensabili per creare e scrivere. Insomma, bisogna essere spatriati in qualche modo, no? Penso a Leopardi, a Svevo, con le dovute differenze persino a un Thomas Mann, in apparenza tutelato dall’assetto borghese conservatore di inizio ‘900, rivelandosi invece fragile protezione, e infine a un Robert Walser, tra i tuoi preferiti.

Senza inquietudine non ci sarebbe la letteratura, i demoni vanno tenuti in considerazione. Quando ero giovane avevo come motto “Ama il tuo demone”. Oggi penso sia molto pericoloso, non bisogna lasciarsi travolgere, altrimenti si perde la chiarezza della scrittura. Quanto citi Mann, m…

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