Storici in prima linea. Il Giorno del Ricordo come campo di battaglia

Contro l’uso distorto del passato, che spesso rende “verità” nel senso comune delle vere e proprie menzogne, occorre recuperare un approccio di militanza civile e democratica alla trasmissione del sapere storico.

Pubblichiamo il testo dell’intervento dal titolo “Una battaglia (anche) editoriale. Potenzialità e insidie del debunking storico”, tenutosi al Seminario pubblico “Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del Ricordo”, Università per stranieri di Siena, 9 febbraio 2022.

Molto è stato scritto e detto sulla «complessa vicenda» del confine orientale e nello specifico sul suo “uso” pubblico e soprattutto politico, caposaldo identitario della nuova destra, sempre più aggressiva, censoria, minacciosa, in una dinamica nella quale si è imposto il “paradigma vittimario” che dall’“era del testimone” ha portato a un contagio generalizzato, al punto da scatenare una caccia al “patentino” di vittima, persino tra i carnefici e chi a loro si ispira esplicitamente. L’ha scritto molto nitidamente Valentina Pisanty: “È triste a dirsi, ma l’efficacia della narrazione ‘olocaustica’ ne ha, sì, determinato l’egemonia culturale, ma anche la perversa mutazione in paradigma vittimario con cui chiunque può farsi scudo mentre avanza a spallate a spese delle vittime vere”. Nell’ultimo lustro, al grido di “Non esistono morti di serie B!”, si sta assistendo a un’offensiva con inediti risvolti istituzionali che getta ombre scure sul futuro prossimo, anche giudiziarie: l’accusa più infamante è, ovviamente, quella di “negazionismo”, lemma preso forzatamente a prestito dagli studi sulla Shoah e sugli altri genocidi del Novecento e applicato a una vicenda distante anni luce da questa categoria.

Fortunatamente non mancano le reazioni: basti pensare alla sacrosanta levata di scudi da parte degli storici e delle storiche in seguito alla proposta di Fratelli d’Italia sull’articolo del codice penale che punisce chi nega, minimizza gravemente o fa apologia della Shoah, per rendere perseguibile anche chi fa lo stesso con i “massacri delle foibe”. Lo scopo di fare di quella vicenda (decontestualizzata, ingigantita e mitizzata) il contraltare nazionalista dello sterminio degli ebrei europei è sempre stato piuttosto esplicito, anche nell’ottica di insabbiare ulteriormente i crimini dell’Asse, ribaltando la mappa dei valori dell’Europa postbellica. È l’obiettivo di chi, nella “partita” della memoria pubblica, vuole che un fanatico gerarca fascista debba essere ricordato (e celebrato), esclusivamente in quanto “vittima italiana” (indipendentemente da quello che ha fatto in vita), allo stesso modo di un neonato gassato ad Auschwitz.

L’infondato e raggelante accostamento è un ulteriore segnale di un’inversione di tendenza, che la rete ha amplificato a dismisura, dotando questa narrative di un notevole e rumorosissimo seguito e suscitando vive preoccupazioni tra gli storici e le storiche. Alla luce delle recenti vicende friulane (2019), venete (2021) e piemontesi (la polemica di questi giorni che ha avuto il suo apice in una

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