I nostri antenati lavoravano di meno e avevano una vita migliore. Cosa stiamo sbagliando?

In un'epoca di indicibile prosperità e crisi esistenziale, è tempo di ripensare il lavoro.

Prima di finire questo articolo ero stressato. Era la fine delle vacanze invernali, ma ho comunque deciso di accettare un lavoro da freelance. Avrei potuto scegliere di sdraiarmi su una spiaggia vicino al fiordo di Oslo, andare al cinema o semplicemente sedermi accanto alle piante di pomodoro sul mio balcone. Invece, ho accettato un incarico che ha richiesto molte ore di lavoro. Lo stress che ho sentito mentre si avvicinava la scadenza ha creato una sensazione familiare nel mio stomaco. Ho dormito meno, sono diventato più impaziente e meno presente con gli altri. Fuori splendeva il sole, sul mio conto in banca c’erano abbastanza soldi, ma comunque ero lì, a lavorare alla luce di un computer.

Come la maggior parte delle persone, provo una certa curiosità verso questa attività che chiamiamo “lavoro”. Quando non dormo, non faccio la doccia, non cucino o mangio, passo la maggior parte del mio tempo a lavorare. Mi piace avere ore libere, ma non troppe. In carcere, i prigionieri che vengono messi in isolamento chiedono di uscire per lavorare. Preferiscono fare il bucato e pulire i pavimenti con rapinatori e assassini piuttosto che girarsi i pollici.

La maggior parte dei vincitori della lotteria non smette di lavorare quando diventa ricca. Secondo uno studio pubblicato sulla Harvard Business Review, più soldi fanno le persone, più lavorano. Negli Stati Uniti, il 62% delle persone con i redditi più alti lavora più di 50 ore a settimana. Oltre un terzo di loro lavora più di 60 ore e uno su dieci lavora 80 ore a settimana. Nel frattempo, i loro lussuosi giardini e le loro piscine sono vuoti e le loro auto di lusso raccolgono polvere nei garage.

Pigrizia evolutiva

È nella nostra natura voler lavorare il più possibile? Forse l’evoluzione ci ha fatto apprezzare automaticamente coloro che lavorano sodo e disprezzare coloro che se la prendono comoda. Forse siamo predisposti a essere diligenti.

In un

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.