Aeroporto internazionale di Kiev. Tardo pomeriggio del 23 febbraio. Il volo da Roma atterra in perfetto orario. Il primo sms che ricevo sul numero telefonico italiano è dell’ambasciata. Dice di lasciare immediatamente il Paese, «con qualsiasi mezzo». Nonostante ciò, niente lascia presagire quello che accadrà poche ore dopo. Molte persone partono, pochi arrivano. La città, vista dal taxi che mi porta in hotel, è serena. Le strade sono piene di gente, c’è traffico, i negozi sono ancora aperti. I monumenti di Kiev sono illuminati. Precipiteranno, poche ore dopo, nel buio della guerra.
Mi addormento leggendo le notizie che arrivano dal Donbass e dal confine est, dove l’attacco russo sembra da giorni imminente. Ma Kiev è lontana. «Ci vorrà qualche giorno prima che la Bielorussia entri di fatto in guerra e possa attaccare da nord» mi dico, sapendo che il 28 febbraio al parlamento di Minsk si voterà una risoluzione che revocherà lo status di «Paese neutrale».
Bum!
Non è ancora l’alba quando vengo svegliato dal primo colpo esploso dall’artiglieria russa, che ha iniziato ad attaccare i territori attorno alla capitale ucraina, prendendo di mira in particolare l’aeroporto civile internazionale, punto strategico per isolare, di fatto, l’intero Paese.
Nessuno se lo aspettava, almeno non così velocemente. Ovviamente le avvisaglie di un conflitto ormai alle porte c’erano tutte, ma un attacco così improvviso e così pesante prende tutti alla sprovvista, tanto che il primo allarme – che dice chiaramente una cosa: rischio bombardamento –risuonerà solo alle 7.15 di mattina.
Il secondo e il terzo colpo di mortaio mi confermano che l’attacco è davvero in corso, mentre le agenzie di stampa confermano che l’attacco è iniziato anche nel Donbass.
Le strade letteralmente deserte sono la prima cosa che vedo di Kiev con la luce del giorno. Mentre le attraverso le sirene rendono il centro spettrale. Non ho neanche il tempo di recuperare l…