Sono convinto che sia necessaria una nuova definizione di eutanasia, un termine oggi troppo carico di significati ideologici, che hanno creato schieramenti fittizi e fuorvianti.
Il termine eutanasia (dal greco «buona morte») viene coniato da Francis Bacon per invitare i medici a ridurre con ogni mezzo lecito la sofferenza nella fase terminale. Nei secoli ha assunto tuttavia significati diversi, e durante il nazismo è stato usato per mascherare le eliminazioni di massa di esseri umani. Quindi la parola ha assunto significati sinistri. Un esempio viene dal sistema penale americano, dove il condannato a morte viene in quasi tutti gli Stati giustiziato con un processo eutanasico. Si inocula in vena un sedativo e ipnotico e poi la sostanza letale. Certo, questa è una morte più «buona» di quella con la sedia elettrica o l’impiccagione, ma la differenza con l’eutanasia di Bacon è sostanziale. Mentre l’eutanasia in un malato terminale riflette la scelta e la volontà del paziente (quindi si può parlare di suicidio assistito), nell’esecuzione di un condannato a morte non vi è certo la volontà del carcerato, si può quindi definire omicidio assistito, ma pur sempre un omicidio e non sorprende quindi che l’Ordine dei medici americani abbia invitato i suoi iscritti a rifiutarsi di eseguirla.
In Italia chi è contrario all’eutanasia si autodefinisce «pro vita», co- me se chi è favorevole fosse «pro morte». La questione va posta, semmai, nei termini quasi opposti: si tratta di considerare giusta o no, legittima o no, la libera decisione di una persona di porre fine a una vita che non considera più vita, ma soltanto un susseguirsi di ore di dolore e sofferenze insopportabili.
Si attribuiscono inoltre al termine eutanasia diversi atti legati all’indurre una «buona morte». Come ho già avuto modo di chiarire nel libro Responsabilità della vita, scritto a quattro mani con il professor Giovanni Reale, «il primo, il più semplice, è quello di abbandonare le terapie perché ritenute ormai inefficaci e quindi inutili (potremmo definire il «lasciar morire»); il secondo è quello di aumentare progressivamente le dosi di oppiacei sino ad accelerare il processo della morte (l’aiutare a morire) e il terzo è quello di intervenire con un farmaco mortale o con l’eliminazione di un sostegno vitale su richiesta esplicita, ripetuta, testimoniata, di un paziente terminale che non riesce più a sopportare le sofferenze di una vita ormai senza speranza (quindi fare morire). Non c’è dubbio che le tre forme descritte sono lontane l’una dall’altra dal punto di vista giuridico, ma non lo sono dal punto di vista filosofico ed etico. In realtà le tre modalità hanno tutte in comune la stessa origine e mo…