Noury: “Le battaglie per Regeni, Zaki e Assange e il nostro futuro”

La nona intervista del ciclo “La politica che (non) c’è” è a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. Al centro, l’attivismo, le mobilitazioni della società civile, la crisi della rappresentanza e la voglia di partecipazione dei giovani, a partire dalla questione ambientale.

Il 2019 è stato un anno difficile oggi da eguagliare per quanto riguarda l’attivismo, soprattutto giovanile. “Penso alle tante iniziative dei Friday For Future, alle proteste contro il Family Day di Verona, o al percorso che ha portato al 10 dicembre quando, a Milano, si urlò che ‘L’odio non ha futuro’ e si creò quell’emozionante ‘scorta civica’ intorno a Liliana Segre”. Per non parlare di quanto avvenuto in giro per il mondo, “dal Cile a Hong Kong”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, parte dalle tante mobilitazioni di quello che definisce “anno modello” per analizzare, in questa nona intervista del ciclo “La politica che (non) c’è”, lo stato di salute della società civile italiana. “Oggi però noto un ritorno importante di quel fermento che è stato fermato solo da una pandemia globale”. Fermato nelle piazze, “ma non nel percorso”.

Dove sono oggi quelle reti, quei percorsi, che – come ha sottolineato – hanno fatto del 2019 una sorta di punto di riferimento per l’attivismo a livello globale?
La pandemia ci ha costretto a ritirarci sulle piazze virtuali, ma sono sicuro che più usciremo dalla pandemia e più le piazze torneranno a riempirsi. In fondo, quella rete che si era creata nelle piazze del 2019 ha in parte continuato a lavorare nel 2020 e nel 2021 sfruttando bene le possibilità date dalle piattaforme. Se andassimo a contare il numero di incontri, conferenze, convegni abbiamo assistito a qualcosa di mai visto. Diciamo che abbiamo in qualche modo sfruttato la pandemia per studiare. E per incontrarci.

Le piazze del 2019 non hanno però trovato un reale alleato nella politica che potremmo definire della rappresentanza. E non mi sembra che ora il clima sia poi tanto diverso.
Le piazze si guardano spesso intorno alla ricerca di qualcuno che dia loro retta. E ancora, in un certo senso, continuano a farlo. Ma non c’è spazio. Ormai è evidente. Un esempio si è avuto con quanto accaduto a Mimmo Lucano. Dopo la condanna in primo grado abbiamo visto migliaia di persone recarsi a Riace e riempire il piazzale della Sapienza in un’enorme manifestazione di solidarietà. C’è stata poi una manifestazione a Montecitorio organizzata da Luigi Manconi. Ma chi, oggi, in Italia può rappresentare questo attivismo? La risposta, purtroppo, è “nessuno”. Ma non è sempre stato così.

Può farci un esempio?
L’unica volta in cui, veramente, la politica è riuscita a intercettare un movimento è stato quando furono assassinati Falcone e Borsellino, e questo avvenne intorno alla figura di…

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.