La Russia senza fortochki

L’allineamento al regime di Putin della Higher School of Economics – ateneo simbolo della transizione post-sovietica, un tempo aperto alle posizioni di dissenso – è una cartina di tornasole del picco di repressione istituzionale nei confronti della società civile che la Russia sta attraversando in queste settimane.

Nel passaggio a un’economia di mercato, nel 1991, la Russia si trovò completamente sprovvista di categorie analitiche adatte a pianificare il futuro socioeconomico del Paese. Nel periodo immediatamente postrivoluzionario, gli studi economici furono orientati alla pianificazione della Nuova politica economica e la sociologia fu accantonata con disprezzo dal potere sovietico. Alla ricerca sociologica fu sostituito un rigido inquadramento degli insegnamenti, della produzione teorica e, più in generale, del dibattito filosofico-politico entro le categorie marxiste-leniniste. Fu lo stesso Lenin, infatti, a inaugurare la stagione del disprezzo per la sociologia, in quanto proprio i suoi confini sfumati e ondivaghi, volti al proprio superamento e in costante tensione dialettica con le proprie istanze, non la rendevano uno strumento efficace alla costruzione dell’“uomo nuovo” sovietico. Questo approccio prettamente strumentale alle scienze sociali, che escludeva la possibilità di portare avanti una ricerca il cui fine non fosse quello di riaffermare l’ideologia del regime, si conservò lungo tutto il periodo sovietico, pur assumendo talvolta sembianze diverse.

Non mancò, certo, ciò che Masha Gessen paragonò alle fortochki nella sua opera di non-fiction “Il futuro è storia” (Sellerio 2020). Le fortochki erano un marchingegno sviluppato dall’architettura russa. Per consentire di mantenere temperature confortevoli durante il rigido inverno russo, le finestre delle case rimanevano costantemente sigillate. Senza un ricambio di ossigeno adeguato, l’aria delle abitazioni sarebbe ben presto diventata irrespirabile e claustrofobica. La fortochka, una finestrella nella parte superiore della finestra, ricavata all’interno di una lastra più grande, consentiva di mantenere un ricircolo adeguato senza far entrare troppo freddo. A filtrare un po’ di ossigeno nell’aria stagnante degli studi sociali sovietici erano personaggi del calibro di Jurij Levada, poi caduto in disgrazia, Tat’jana Zaslavskaja e Lev Gudkov, che oggi dirige il centro di ricerca sociale intitolato proprio a Levada.

Tuttavia, l’ossigeno apportato da questi personaggi non era certo sufficiente a sostenere la completa riprogrammazione economico-sociale del Paese degli anni Novanta. Egor Gajdar, tra i comandanti in capo della transizione a un’economia di mercato della presidenza El’cin, riconobbe immediatamente la falla strategica nella drammatica arretratezza delle scienze sociali nel contesto delle molte università russe, isolate, peraltro, dalle scolarship internazionali. Grazie a fondi europei e a contributi della Soros Foundation e del governo francese, il 27 novembre 1992 Egor Gajdar firmò il decreto governativo con cui venne fondata la Higher School of Economics. Inizialmente pensata come un think tank, l’ateneo raccolse attorno a sé un gruppo di economisti e sociologi di orientamento liberale che cominciarono ben presto a intrattenere intensi scambi con studiosi occidentali, in particolare olandesi e francesi. La Higher School of Economics fu il primo ateneo russo a entrare nel Bologna Process, nel 1993, e…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.