I tesori perduti dell’Afghanistan

Dai famosi Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani al prezioso sito archeologico di Ai Khanum. Dalle rovine del centro monastico di Hadda alla Pompei orientale di Mes Aynak. Tra incuria, conflitti armati, saccheggi e ondate iconoclaste, l’incredibile e dolorosa storia moderna dell’archeologia afghana.

I russi, gli americani: i comprimari. Poi le comparse, le temporanee alleanze, i demoni locali che dai rispettivi interessi vengono evocati e nutriti, i teatri di guerra e i contesti. Contesti millenari, complicati, esplosivi. Sono passati ventuno anni da quando, nel marzo del 2001, i Talebani hanno distrutto i famosi Buddha che guardavano la Valle del Bamiyan. Nove mesi dopo, nel centro di New York, il crollo delle Twin Towers.

In Afghanistan le due gigantesche e antiche sculture, alte trentotto e cinquantacinque metri, erano state realizzate nel VII secolo da sconosciuti artisti greco-buddhisti, scavando alte nicchie verticali nella vasta falesia che affaccia da settentrione su una verdeggiante pianura a oltre duemilacinquecento metri di altitudine. Lo snodo, a metà strada tra Balkh e Kabul, di un passaggio naturale usato per secoli da mercanti, missionari e pellegrini sulla Via della Seta, nel cuore del grande Hindu Kush. Un’altra statua di Buddha è sopravvissuta alla violenza iconoclasta, ma già da tanto tempo aveva perduto il suo volto: remote, lontane vicende storiche hanno protetto il suo sguardo da questa nuova barbarie. Tutto intorno, per un’area di circa due chilometri e fin dentro le nicchie dei Buddha, tutta la falesia è traforata in lungo e in largo di centinaia di piccole grotte e celle quadrate o poligonali ricavate nella roccia dai monaci che abbellivano questi loro nidi eremitici con decorazioni e pitture parietali in blu, verde, giallo, bianco e rosso.

Nella primavera del 630 giunse qui il religioso cinese Hiuen-Tsiang: mesi prima, in seguito a un sogno, questi aveva intrapreso un lungo e avventuroso viaggio che lo aveva condotto dal deserto del Gobi alle rive del Gange passando per l’odierno Kirghizistan, per Tashkent, Samarcanda, e che lo avrebbe portato nelle odierne Kabul, Jalalabad, Peshawar, fino ad Allahabad in India, per visitare tutti i più importanti luoghi di culto buddhisti, confrontarsi con i fratelli di altre scuole, conoscere popoli, persone e idee. A Bamiyan, poco lontano da una città regale, Hiuen-Tsiang vide le colossali statue ancora nuove, scolpite pochi decenni prima, con i volti immoti costituiti da maschere lignee che raffiguravano nei tratti dell’Illuminato la pace e la conoscenza che gli uomini non trovano, non cercano. Una di queste, in particolare, gli parve enorme e preziosa: “la statua è di un color oro che irradia da tutte le parti, e l’occhio è abbagliato dai suoi ornamenti preziosi”. Un’altra statua gigantesca in argill…

Giù le mani dai centri antiviolenza: i tentativi istituzionalisti e securitari di strapparli al movimento delle donne

Fondamentale acquisizione del movimento delle donne dal basso, per salvarsi la vita e proteggersi dalla violenza soprattutto domestica, oggi i centri antiviolenza subiscono una crescente pressione verso l’istituzionalizzazione e l’irreggimentazione in chiave securitaria e assistenzialista. Tanto che ai bandi per finanziarli accedono realtà persino sfacciatamente pro-patriarcali come i gruppi ProVita o altre congreghe di tipo religioso.

Contro l’“onnipresente violenza”: la lotta in poesia delle femministe russe

Una nuova generazione di femministe russe, oggi quasi tutte riparate all’estero dopo l’inizio dell’invasione in Ucraina, sta svelando attraverso un nuovo uso del linguaggio poetico il trauma rappresentato per le donne dalla violenza maschile, all’interno di una società patriarcale come quella russa che, con il pieno avallo dello Stato, ritiene lo spazio domestico e chi lo abita soggetti al dominio incontrastato dell’uomo. La popolarità della loro poesia e del loro impegno testimonia la reattività della società russa, nonostante la pesante militarizzazione.