Entrare in una storia attraverso la fotografia: intervista a Valerio Bispuri

Con il fotoreporter, autore del libro “Dentro una storia. Appunti sulla fotografia”, parliamo del ruolo delle immagini nel giornalismo di oggi, del potere di uno scatto, ma soprattutto dell’importanza di raccontare le storie dimenticate: quelle degli ultimi e degli emarginati.

Gli invisibili. Gli emarginati. Soprattutto, le loro storie. “Dentro una storia. Appunti sulla fotografia“ (Mimesis Edizioni) è il titolo del lavoro di Valerio Bispuri, fotoreporter romano che ha trascorso gran parte della sua vita in America Latina, scegliendo l’Argentina come suo secondo Paese. Un lavoro che mostra tutta la forza e la potenzialità della fotografia nel raccontare quella parte del mondo che abbiamo colpevolmente dimenticato. Un libro – lo ammetto – difficile da recensire. Una scelta possibile per parlare di questo lavoro poteva essere prendere una delle storie raccontate da Bispuri e pubblicarla così com’è. Un’altra, era sedersi a un tavolo con lui e parlare. Parlare. Parlare. Fare domande. Abbiamo scelto la seconda opzione perché dentro i racconti di Bispuri, al quale nelle domande che seguono mi permetto di dare del “tu”, c’è tutta la forza del dito e dell’occhio del fotografo. Cosa non scontata in un momento storico-editoriale in cui la fotografia è sempre più considerata come un “riempitivo” per una pagina di un giornale. Bispuri dimostra invece l’esatto contrario: quanto sia centrale ragionare a fondo sul perché, per quel testo, si sceglie quell’immagine.

Inizio confessandoti una piccola mania che ho. Ogni volta che sfoglio un libro, non so perché, vado a vedere l’ultima parola dell’ultima pagina. E quella che hai scritto è “dimenticata”, riferito ovviamente alle persone. Cito: “La fotografia è un modo per raccontarla (la condizione umana, ndr), per rendere umani e cercare di liberare chi non ha la forza per farlo. Mi piace credere che questo sia possibile e che un semplice scatto possa scavare dentro alle persone tanto da far riemergere un’umanità sommersa e dimenticata”. Perché “dimenticata”?
Perché quasi nessuno si occupa più di questa umanità. Il mondo del fotogiornalismo è cambiato, veloce, spesso schiacciato sulla cronaca. Oggi sono tutti sul fronte di guerra, come se fosse l’unico evento da raccontare in giro per il mondo. “Dimenticata” perché c’è una parte sommersa di un’umanità che soffre. Nella mia carriera ho iniziato raccontando i rom, i miei primi dimenticati, poi i detenuti, i drogati, i sordi e i malati mentali. Un mondo che vive in una sorta di “libertà perduta”. Uno dei lavori ai quali sono più legato è quello sui sordi, perché in qualche modo sono riuscito a raccontare una realtà non legata a una notizia, di cui non si conosce quasi niente. Riuscire a dare spazio a loro è stata una piccola grande vittoria.

Qual è il tuo rapporto con la fotografia?
Ti dirò una cosa che ti sorprenderà: non amo in generale la fotografia, non mi piace fotografare qualsiasi cosa. Utilizzo le immagini perché sento che siano il mezzo con cui riesco meglio a comunicare e a raccontare un’umanità invisibile. Nella vita all’inizio volevo fare il giornalista, raccontare con la scrittura il mondo invisibile, negli anni però mi sono accorto di riuscire meglio con la macchina fotografica. Diciamo che sono un antropologo-giornalista che racconta attraverso le immagini.

Il tuo lavoro è spesso, passami il concetto, fuori dal coro. C’è una guerra in Europa e tu non sei lì.
È qualcosa che non sarei in grado di raccontare, non sono mai stato un fotografo di guerra. Mi interessa il mondo nascosto, che ha quasi paura di alzare la testa, quello che non si conosce.

All’interno del tuo libro c’è ampio risalto al concetto di tempo: avere tempo, dedicare tempo, investire tempo.
Uno dei miei libri di riferimento è “Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema” di Andrej Tarkovskij. La domanda per me centrale è nata guardando il Decalogo di Krzysztof Kieślowski: è “possibile che un’opera così lenta sia tanto appassionante?”. Seguendo un po’ il suo concetto nel racconto fotografico cerco di mettere il tempo al centro: come si può raccontare qualcosa senza conoscerla prima? Per rappresentare la realtà oltre il mero livello estetico serve tempo.

Il tuo ultimo lavoro racconta la malattia mentale, come è sta…

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