Il pool antimafia e i suoi nemici

Dall’archivio della rivista riproponiamo la testimonianza di Giuseppe Ayala, uno dei magistrati protagonisti della “primavera di Palermo”, che racconta la storia di una esperienza straordinaria, i boicottaggi e le meschinità che l’hanno logorata, l’amicizia con Giovanni Falcone (da MicroMega 3/1992).

Sino agli inizi degli anni Ottanta la mafia non era certamente assidua frequentatrice delle aule giudiziarie. Pochi e discontinui i processi. Scontate, prima o dopo, le assoluzioni con la classica formula dell’insufficienza di prove.

La coscienza e la conoscenza del fenomeno erano di una superficialità tale da indurre un magistrato di Palermo ad avvicinare un giorno il collega Falcone per chiedergli testualmente: «Giovanni, ma tu sei proprio sicuro che la mafia esiste?». Giovanni Falcone era stato da poco assegnato all’ufficio istruzione e si era subito trovato sul tavolo un fascicolo a carico di numerosi presunti mafiosi.

Rocco Chinnici, che dirigeva esemplarmente l’ufficio, aveva voluto metterlo alla prova incaricandolo di istruire un processo destinato a far discutere a lungo sotto vari profili.

La polizia giudiziaria, dopo la barbara uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, aveva proceduto all’arresto in flagranza di alcune decine di personaggi dello scenario mafioso palermitano. Gli indizi raccolti non dovevano essere particolarmente corposi, tanto che alcuni sostituti, dopo gli interrogatori di rito, ritennero di non poter convalidare molti di quegli arresti. Le loro perplessità emersero nel corso di una riunione nell’ufficio dell’allora procuratore della Repubblica Gaetano Costa che, come è noto, troncò ogni discussione decidendo di convalidarli tutti personalmente, senza coinvolgere i suoi collaboratori.

Non molto tempo dopo il povero Gaetano Costa trovò la morte in un agguato mafioso al cui movente non era certamente estranea quella assunzione di responsabilità in prima persona.

Ricevuti gli atti, Giovanni Falcone diede l’avvio, forse senza neanche averne compiuta consapevolezza, a quella che doveva divenire la più esaltante e inedita stagione giudiziaria palermitana. La sua eccezionale capacità professionale lo portò a trasformare quello scarno fascicolo nel primo, moderno processo contro la criminalità mafiosa.

La grande intuizione che lo guidò, nel certosino lavoro istruttorio, era assai semplice, ma, al tempo stesso, per certi versi rivoluzionaria. La finalità principale dell’associazione mafiosa consiste nell’accumulazione di ricchezza. II profitto e, quindi, il danaro è il minimo comune denominatore di tutte le attività illecite degli associati. Nelle banche, allora, bisogna andare a trovare i riscontri non soltanto degli arricchimenti, ma anche dei rapporti e dei legami tra gli imputati e tra questi e i terzi.

Con la dedizione e l’impegno che era solito spendere per quattordici ore al giorno, senza mai badare né ai week-end, né alle ferie, Falcone riuscì a costruire, sulla base degli accertamenti bancari, un reticolo di prove che inchiodò gli imputati alle loro responsabilità, reggendo perfino anche al vaglio della Cassazione.

Falcone maturò, al contempo, nel corso dell’istruttoria, una forte presa di coscienza della gravità del fenomeno mafioso, del suo modo di essere tra gli accoliti, e tr…

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