La lunga ombra della catastrofe ambientale in Ucraina

Accanto alla crisi umanitaria e al tracollo economico, l’Ucraina si trova a fare i conti con le prime avvisaglie di una gravissima crisi ambientale. La guerra in corso, infatti, sta lasciando dietro di sé una scia di devastazione dell’ambiente, fatta di inquinamento, distruzione delle risorse primarie e perdita massiccia di biodiversità.

La grave crisi umanitaria che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è la conseguenza più drammatica, e certamente la più evidente nel breve periodo, della folle guerra innescata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La più evidente, dicevamo, ma non l’unica, soprattutto in una prospettiva di lungo termine. Infatti, le attività militari che, da due mesi a questa parte, hanno messo a ferro e fuoco il territorio ucraino hanno conseguenze profonde e diversificate anche dal punto di vista ambientale.

L’Ucraina contiene 4 impianti e 15 reattori nucleari; il Paese, fortemente industrializzato, è disseminato di centinaia di fabbriche per la produzione di metalli e di prodotti chimici; la regione orientale del Donbass, ormai da anni tristemente nota, è punteggiata da profonde miniere di carbone. Anche il settore agricolo ucraino è molto sviluppato: gli estesi e fertili campi del Paese forniscono – o meglio: fornivano, prima del conflitto – una vasta produzione di grano, mais e orzo, barbabietole da zucchero e girasoli, alimenti “primari” in larga parte destinati all’esportazione in tutto il mondo. L’Ucraina è anche un hotspot di biodiversità: pur rappresentando solo il 6% del territorio europeo (da un punto di vista soltanto geografico, per ora), accoglie ben il 35% della biodiversità vegetale e animale del continente, con un elevato tasso di specie endemiche e a rischio d’estinzione. Il 16% del territorio nazionale è coperto da foreste, che costituiscono un importante habitat per la biodiversità locale e forniscono molti servizi ecosistemici, fondamentali anche per il benessere delle società umane.

Alla luce di tale ricchezza e complessità, sembra impossibile ignorare un aspetto di questo conflitto che lascerà su quella terra ferite difficili da rimarginare. La distruzione indiscriminata causata dalla guerra comporta non solo gravi danni economici e sociali, ma anche un’estesa degradazione ambientale, che delle difficoltà economiche e sociali può facilmente diventare un moltiplicatore. Il Conflict and Environment Observatory (CEOBS) ha monitorato fin dalla sua costituzione, nel 2018, gli impatti ambientali della guerra ‘a bassa intensità’ in corso nel Donbass dal 2014; l’estensione del conflitto, a febbraio 2022, ha gravemente peggiorato la situazione in tutto il Paese. Tuttavia, vista l’entità dei danni subiti, la tutela ambientale «non sarà la priorità del governo ucraino, quando la guerra finirà», afferma Doug Weir, direttore scientifico e politico del CEOBS, in

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.