Addio gas russo, benvenuta decarbonizzazione rapida

Dobbiamo tagliare le importazioni di combustibili fossili dalla Russia e cambiare il nostro uso dell’energia, per combattere sia la crisi del costo della vita sia la crisi climatica globale.

Politici e funzionari europei stanno elaborando piani per ridurre a zero le importazioni di combustibili fossili dalla Russia.

A maggio, la Commissione europea ha pubblicato un piano per porre fine alle importazioni di gas russo entro il 2027. I gruppi che lavorano sul clima affermano che si può fare molto prima.

Questa è una svolta storica. Le importazioni di gas dalla Russia sono iniziate negli anni Sessanta e sono state il simbolo non solo di una fiorente relazione commerciale con l’Europa, ma anche di una partnership geopolitica sopravvissuta alla disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991.

Quanto sono forti le argomentazioni del movimento sindacale e della società civile in Europa a sostegno delle sanzioni contro l’economia russa, e in particolare contro i combustibili fossili russi? Quali sanzioni potrebbero essere efficaci? E un embargo sulle importazioni russe di petrolio e gas potrebbe dare una spinta alla decarbonizzazione e alla lotta per prevenire il pericoloso riscaldamento globale?

Il caso delle sanzioni

Il caso delle sanzioni, come quello della fornitura di armi all’Ucraina, è legato alla natura della guerra condotta dalla Russia.

L’esercito ucraino, attivamente sostenuto da milioni di civili, sta difendendo il territorio da un’invasione che aveva l’obiettivo dichiarato – ora ridimensionato – di smembrare e soggiogare il Paese. La giustificazione del Cremlino è che l’Ucraina, la colonia più antica della Russia, non merita di essere un Paese indipendente.

I metodi brutali dell’esercito russo, inclusi massacri, esecuzioni e stupri di civili disarmati, hanno innescato la più grande crisi di rifugiati in Europa dal 1945. Tuttavia, nel movimento sindacale e nella società civile europei vi sono ancora dubbi sul sostegno alle sanzioni contro la Russia. Gli oppositori delle sanzioni affermano che esse danneggiano il popolo russo più che il governo e che i politici occidentali sono più interessati a distruggere l’economia russa che ad aiutare l’Ucraina.

Le sanzioni ad ampio raggio imposte alla Russia nelle prime settimane di guerra arrecheranno indubbiamente gravi danni all’economia del Paese per molti anni a venire.

Le misure miranti alle esportazioni russe di petrolio e gas sono state finora relativamente limitate. Pesanti sanzioni sono state imposte a molte delle maggiori istituzioni finanziarie russe; l’accesso al sistema di pagamento SWIFT è stato limitato; e centinaia di miliardi di dollari, tenuti dalla Banca centrale russa in conti esteri per sostenere il rublo, sono stati congelati.

Conta anche l’“auto sanzione” da parte delle imprese occidentali. Le aziende che hanno lavorato in Russia per decenni si stanno ritirando, tra esse BP, Shell, ExxonMobil ed Equinor, quattro delle sei maggiori società straniere nel settore petrolifero e del gas. La produzione di petrolio è diminuita.

L’industria manifatturiera è fortemente colpita. Ad esempio, solo una delle 21 fabbriche automobilistiche russe funziona normalmente, visto che le catene di approvvigionamento si stanno esaurendo.

È probabile che le sanzioni intensifichino le disuguaglianze imposte a decine di milioni di russi dal capitalismo cleptocratico e parassitario del Paese. Il tenore di vita peggiorerà sicuramente.

Nonostante ciò, il politologo russo Ilya Matveev sostiene che le sanzioni sembrano essere uno «strumento efficace» per «fermare, o almeno indebolire, la macchina militare russa in Ucraina». Il complesso militare-industriale russo fa molto affidamento su componenti importate e un blocco economico ridurrà la capacità russa di sostenere la missione assassina dell’esercito.

«I sostenitori della pace non dovrebbero invocare la revoca delle sanzioni economiche fino a quando l’aggressione militare russa non si fermerà completamente», scrive Matveev.

Sono d’accordo con lui.

La sofferenza economica patita dal popolo russo non è qualcosa da celebrare, ma non è nemmeno un motivo per opporsi alle sanzioni. Queste possono accelerare la fine della guerra, salvando la vita sia dei civili ucraini sia dei soldati russi.

E i politici occidentali che parlano di soggiogare la Russia? Sì, parlano, ma non giocano un ruolo decisivo nel plasmare le relazioni tra la Russia e le grandi potenze occidentali.

Il fattore determinante è l’integrazione della Russia nell’economia mondiale dagli anni Novanta come fornitore di materie prime – petrolio, gas, metalli e minerali – cioè come Paese economicamente subordinato. Negli ultimi due decenni, il presidente Vladimir Putin ha cercato di compensare la debolezza economica della Russia con l’aggressività militare – in Cecenia (2002-2003), Georgia (2008) e Siria (2015-2016).

Le potenze occidentali, lungi dal cercare di indebolire la Russia, hanno concesso a Putin la sua sfera di influenza. Sanzioni limitate sono state imposte solo quando la Russia ha annesso la Crimea nel 2014. Mentre l’élite russa ha accumulato un’oscena ricchezza da petrolio e gas, le potenze occidentali hanno accolto con favore che essa fosse messa da parte nei paradisi fiscali che hanno agevolato.

Questo difficile compromesso russo-occidentale è stato infranto a febbraio, dal riconoscimento da parte della Russia delle cosiddette “repubbliche popolari” separatiste nell’Ucraina orientale e dall’invasione totale che ne è seguita. La Germania ha invertito la sua politica decennale nei confronti della Russia, annullando immediatamente il progetto del gasdotto Nord Stream 2 e infine fornendo per la prima volta armi all’Ucraina.

Quali sanzioni funzionano meglio?

Negli ultimi anni il petrolio ha contribuito per il 45% ai proventi delle esportazioni russe, il gas per il 12%. Gran parte di questo denaro va direttamente allo Stato russo: insieme, le vendite dei due combustibili forniscono circa il 40% delle sue entrate. Sanzionare questi flussi è importante.

Ma la ripresa economica dalla pandemia di coronavirus, associata allo shock dei flussi commerciali causato dalla guerra in Ucraina, ha spinto i prezzi sia del petrolio sia del gas – e con essi i ricavi della Russia – a livelli record. Il Paese ha guadagnato circa 61 miliardi di dollari dalla vendita di petrolio e gas nei primi due mesi di guerra.

A maggio, le entrate dei combustibili fossili sono state di circa 1 miliardo di dollari al giorno. Le importazioni sono crollate e il surplus delle partite correnti della Russia, che includono scambi commerciali e alcuni flussi finanziari, potrebbe raggiungere quest’anno i 250 miliardi di dollari, più del doppio del livello del 2021.

Mentre i ricavi delle esportazioni sono in aumento, il volume delle esportazioni è in calo, sebbene le spedizioni di petrolio sanzionate in Europa siano state spesso vendute in Asia o altrove. Anche il volume totale della produzione petrolifera russa è in calo e, a lungo termine, i produttori dovranno affrontare ulteriori problemi di accesso a capitale e tecnologia.

In breve, le sanzioni sul petrolio russo non è ovvio che siano così efficaci e gli economisti stanno escogitando modi per migliorarle, come tariffe o “sanzioni-riparazioni petrolifere intelligenti” che trattengono alcune rimesse.

Ma l’embargo sulle importazioni di gas russo attualmente in discussione nell’Unione Europea potrebbe essere più dannoso, e più rapidamente, per la Russia. Il gas che scorre dai grandi giacimenti della Siberia occidentale e della penisola Jamal verso la Germania, l’Italia e l’Europa centrale non può essere facilmente deviato altrove.

Le esportazioni di gas russe verso la Cina sono a un livello molto inferiore (38 miliardi di metri cubi all’anno, con la promessa di 10 miliardi di metri cubi in più in futuro) rispetto alle esportazioni verso l’Europa (circa 150 miliardi di metri cubi all’anno negli ultimi tempi) – e comunque sono forniti da altri giacimenti, nella Siberia orientale. Se il gas russo fosse chiuso fuori dall’Europa, probabilmente non avrebbe nessun altro posto dove andare.

La tempistica e il successo di un embargo sul gas russo non sono affatto assicurati, poiché molti imprenditori in Europa vi si oppongono. Ad esempio, Herbert Diess della Volkswagen, le cui catene di approvvigionamento sono state interrotte dalla guerra, ha di fatto sfidato la posizione dell’Ue sulle sanzioni, invitando i politici a negoziare con la Russia anche di fronte al perdurare dell’aggressione militare.

Altri grandi beneficiari dei legami con la Russia sono meno inclini a parlarne pubblicamente. Tra questi le più grandi società di commercio di petrolio del mondo (Vitol, Trafigura e Glencore) che continuano a spedire milioni di tonnellate di petrolio russo.

I limiti all’efficacia delle sanzioni sono più evidenti che mai nelle misure per colpire i ricchi russi. Il Tax Justice Network ha avvertito che gli sforzi per rintracciare i beni dei ricchi russi da parte di una task force transatlantica, istituita dalle potenze occidentali dopo l’invasione russa, sono «gravemente ostacolati da scappatoie, leggi sulla segretezza e carenze».

Il Regno Unito è stato particolarmente accogliente nei confronti del denaro russo. Dopo l’invasione dell’Ucraina ha sanzionato un certo numero di oligarchi, ma in molti casi stava chiudendo la porta dopo che il cavallo era scappato. Ad esempio, i ricercatori hanno scoperto che le carenze istituzionali avevano consentito al denaro appartenente ad Alisher Usmanov, un insider del Cremlino e un tempo il cittadino più ricco del Regno Unito, di essere nascosto in una rete di trust.

Sanzioni e decarbonizzazione

Mentre i lobbisti sperano di rallentare i piani della Commissione europea per tagliare le importazioni russe e ridurre il consumo di gas, gli attivisti del clima vogliono accelerare questi sforzi.

E non si tratta solo di velocità. Si tratta di concentrarsi sulla sostituzione delle importazioni russe con combustibili fossili provenienti da altrove, posticipando drastici cambiamenti nei nostri sistemi a combustibili fossili, o di prendere il toro per le corna e ridurre il consumo di gas. Ciò comporterebbe sofferenze per i singoli consumatori europei, cercando però altri modi per fornire il calore attualmente prodotto dal gas.

I ricercatori del Regulatory Assistance Project, un think tank sulla politica energetica, sostengono che, dato che la maggior parte del gas europeo viene utilizzato per il riscaldamento a bassa temperatura (ad esempio, nelle case), esso può «essere sostituito dalle tecnologie esistenti».

Ciò significa, in primo luogo, isolare le abitazioni e installare pompe di calore elettriche nonché sistemi di teleriscaldamento (una fonte di calore centralizzata per quartieri); e la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili anziché da gas.

Il gas è utilizzato anche nell’industria, sia come fonte di calore sia come materia prima. Sostituirlo lì è più complicato, ma gli ingegneri sanno come fare.

I ricercatori in materia di sistemi energetici affermano che le misure di conservazione, che avrebbero dovuto essere avviate decenni fa, per aiutare a evitare il pericoloso riscaldamento globale, possono in pochi anni abbattere la domanda di gas di quasi un terzo del consumo totale dell’Ue.

Un’alleanza ambientalista mira a risparmiare 100 miliardi di metri cubi di gas entro il 2025 in tutta l’Ue attraverso misure di efficienza energetica, pompe di calore ed elettrificazione negli edifici, e più elettricità rinnovabile. Climact, un gruppo di campagna per il clima, ha proposto tagli di 26,6 miliardi di metri cubi entro il 2027 solo dai tre maggiori settori industriali a combustione di gas: prodotti chimici, alimentari e minerali non metallici (per lo più vetro e ceramica).

Queste sostanziali riduzioni nell’uso di combustibili fossili sono il tipo di politiche necessarie per affrontare la crisi climatica, in contrasto con gli obiettivi di “net zero” dei governi. Questi sono ambigui, perché presuppongono che le economie possano continuare a emettere grandi quantità di gas serra nell’atmosfera e rimuoverle nei decenni futuri con tecnologie non collaudate.

Mentre le proposte degli ambientalisti si concentrano (giustamente a mio avviso) sui sistemi tecnologici inefficienti, ancora più combustibili fossili potrebbero essere risparmiati con cambiamenti nel nostro stile di vita, ad esempio dicendo addio ai sistemi di trasporto urbano basati sull’auto, riducendo drasticamente i viaggi aerei, e così via.

Le politiche economiche che mettono in discussione non solo l’efficienza dell’uso del carburante, ma anche quale sia il valore della produzione per lo sviluppo e la felicità umani – e non solo per il profitto – potrebbero anche ridurre gran parte della domanda di carburante.

Il movimento sindacale e i movimenti sociali europei hanno tutto da guadagnare nello schierarsi con queste proposte per il risparmio energetico, perché esse possono anche aiutare ad affrontare la crisi del costo della vita, esacerbata dalla guerra della Russia contro l’Ucraina.

Un programma intensivo per isolare le case e fornire pompe di calore elettriche, o collegamenti ai sistemi di teleriscaldamento, affronterebbe sia la crisi immediata delle famiglie, delle bollette non pagabili, sia la più grande e a lungo termine crisi del riscaldamento globale. Fare campagna per un programma simile potrebbe unire nell’azione la politica climatica e la giustizia sociale.

Governi e corporations stanno inquadrando la guerra della Russia contro l’Ucraina come un problema di “sicurezza energetica” che può essere affrontato in primo luogo con combustibili fossili provenienti da altrove o false soluzioni come l’idrogeno. Al contrario, dobbiamo affrontare questa crisi insieme alla crisi del riscaldamento globale e mobilitarci a sostegno delle politiche di risparmio energetico attese da tempo.*

(traduzione dall’inglese di Ingrid Colanicchia)

* L’articolo è uscito originariamente su openDemocracy il 20 maggio 2022, con il titolo “Goodbye Russian gas, hello rapid decarbonisation“. L’autore è honorary professor all’Università di Durham. Tra le sue pubblicazioni: Burning Up: A Global History of Fossil Fuel Consumption (Pluto, 2018), The Russian Revolution in Retreat (Routledge, 2008) e Change in Putin’s Russia (Pluto, 2009).

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