Quando le persone comuni fanno la storia: esperienze rivoluzionarie e di democrazia radicale

Una riflessione sulle caratteristiche ricorrenti e inevitabili espresse dalle traiettorie storiche delle rivoluzioni per comprendere se immaginare un evento rivoluzionario sia ancora significativo per le società in cui viviamo.

Un nostro precedente articolo sosteneva che chi, stando politicamente a sinistra, voglia operare come se la storia umana abbia un senso, deve aprirsi alla capacità delle persone comuni di modificare gli eventi: le vicende storiche marcano un progresso – senza “virgolette”! – ogni volta che non sono plasmate soltanto dalle élite, ossia ogni volta che si allarga la soggettività collettiva[i]. Approfondiamo questa tesi, discutendo una coppia di categorie: le rivoluzioni sociali e le esperienze di democrazia radicale.

Cominciamo rilevando che la storia degli ultimi due secoli è attraversata da tante rotture improvvise, quasi sempre violente, dell’ordine sociale e politico: le rivoluzioni. Una lista parziale degli episodi rivoluzionari, non tutti vittoriosi, per il periodo che va dal 1789 al 1989, inizia con la Rivoluzione francese, prosegue con Polonia 1794, Irlanda 1798, Haiti 1804, Argentina 1810, America Latina 1819, Grecia 1843, Europa continentale 1848, Cina 1850, India 1857, Spagna 1868, Parigi 1871, Filippine 1896, Iran 1905, Turchia 1908, Messico 1910, Russia 1905 e 1917, Germania e Ungheria 1919, Egitto 1919, Spagna 1936, Cina 1911 e 1949, Algeria 1954, Cuba 1959, Portogallo 1974, Vietnam e Cambogia 1975, Iran e Nicaragua 1979, Europa centrale e orientale 1989. Inoltre, questi processi rivoluzionari s’intrecciano a guerre – che spesso ne sono l’origine o lo sbocco – e a rivolte contro le svolte autoritarie che essi stessi talvolta suscitano, da Kronštadt nel 1921 a Budapest nel 1956, da Praga nel 1968 a Pechino nel 1977 e nel 1989, a Danzica nel 1980.

Esaminiamo il fenomeno rivoluzionario in riferimento all’attualità. Chiediamoci se le traiettorie storiche delle rivoluzioni esprimano caratteristiche ricorrenti e inevitabili; e se immaginare un evento rivoluzionario sia ancora significativo per le società in cui viviamo. Nell’adottare, assieme ad Enzo Traverso, «il concetto di rivoluzione come chiave interpretativa della storia moderna»[ii], possiamo prendere le mosse da due posizioni antitetiche. La prima è dovuta a Eric Hobsbawm, che scrisse quattro celebri volumi «sulla storia dell’Ottocento e del Novecento come successione di ondate emancipatrici: 1789, 1848, la Comune di Parigi nel 1871, poi la Rivoluzione russa e infine, a partire dalla Seconda guerra mondiale, le rivoluzioni in Asia e America Latina, dalla Cina a Cuba al Vietnam. La storia […] significava “progresso” e il movimento operaio era il suo strumento»[iii]. L’altra posizione ha, come campione, François Furet, secondo c…

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