La società dello scontro. La pandemia e l’equivoco biopolitico

Utilizzando in modo errato il concetto di biopolitica, una parte della filosofia ha contestato come “dittatura sanitaria” le misure dei governi per contrastare la pandemia. In pericolosa continuità con il pensiero neoliberista questo punto di vista ha finito per anteporre i diritti dell’individualità al senso della comunità.

Polarizzazioni

Diciamolo senza troppi giri di parole. Due anni di Covid non sono stati sufficienti a strutturare una discussione pubblica sulla pandemia coesa, coerente e fondata. Dico “coesa” rispetto ai diversi interessi e le diverse idiosincrasie in gioco; “coerente” rispetto a quanto abbiamo potuto vedere e ascoltare; “fondata” rispetto alle informazioni prodotte da chi disponeva dei mezzi e dei saperi per farne una lettura il più possibile oggettiva – nel limite, ovviamente, delle informazioni e del pregresso a disposizione.

Si è trattato piuttosto di un dibattito confuso e confusivo. Del tutto in sintonia con, se non funzionale al, clamore mediatico che ha accompagnato l’emergenza sanitaria. Un clamore del resto inevitabile, considerato l’odierno sistema dell’informazione e della comunicazione, soprattutto se a calcare la scena sono catastrofi in cui ad essere sollecitata è in prima istanza e, comprensibilmente, la paura.

È esattamente lo stesso spettacolo cui assistiamo oggi, quando guardiamo ai fronti contrapposti su cui si distribuiscono le reazioni all’invasione militare ai danni dell’Ucraina: una aggressiva polarizzazione sociale, incapace di prestare ascolto alla grande lezione del vecchio Tacito, per cui vi sono momenti in cui, al di là dell’inevitabile sdegno, per riuscire a capire qualcosa occorre imparare ad accostarsi ai fatti sine ira et studio. Di nuovo, invece: una discussione pubblica violenta, organizzata più da pregiudizi che da giudizi costruiti su un minimo di ragionevolezza, sempre per quanto sia possibile comprendere dal nostro osservatorio. Forse un segno inequivocabile di una frattura che, prima di riguardare la società, tradisce una lacerazione che si consuma all’interno delle nostre coscienze, atterrite come sono, anche in questo frangente, dalla paura, dalla posta altissima degli interessi in gioco, dal rischio di un disastro mondiale senza scampo (uso atomico della forza).

Sono due casi (pandemia e guerra ai nostri confini), che danno voce a una società dello scontro in cui domina la veemenza verbale tipica di quei vissuti di frustrazione (un corollario della nostra odierna fragilità) dovuti a decenni di politiche economiche aggressive, ordinate a uno spietato calcolo della rendicontazione economica e finalizzate unilateralmente alla produzione di profitto sul brevissimo termine, costi quel che costi in termini sociali e ambientali. Dovuti cioè a politiche economiche che hanno voluto giocare la carta di una imprenditorializzazione tanto spinta, quanto impietosa e indifferenziata di organizzazioni, istituzioni e individui.

In entrambe le emergenze, discorsi e azioni tradiscono un malessere che va ben oltre la posta in gioco. E come sempre, a farne le spese è la lucidità del giudizio critico. Anche la filosofia non sfugge a questo meccanismo. Proprio come si è fratturata la società, allo stesso modo si è polarizzato lo sguardo filosofico, che sovente ne è il riflesso fed…

A Hebron è in vigore l’oppressione permanente dei palestinesi

Dalle punizioni collettive alle tecniche di sorveglianza e riconoscimento facciale,  passando per le “sterilizzazioni” delle strade dalla presenza palestinese come le chiamano i soldati, ogni “misura temporanea di sicurezza” che istituzioni e coloni israeliani testano su Hebron diventa poi uno strumento d’oppressione permanente imposto sull’intera Cisgiordania. Per usare le parole di Issa Amro, leader della resistenza non violenta nella regione, Hebron è il “laboratorio dell’occupazione”.

“Israelism”, la rivolta dei giovani ebrei negli USA contro l’indottrinamento sionista

Il film di Sam Eilertsen ed Erin Axelman “Israelism”, proiettato recentemente in Italia, racconta il processo di presa di coscienza di una intera generazione di ebrei americani cresciuti fin da bambini in un ambiente di ferreo indottrinamento al culto di Israele e alla propaganda sionista. Finché molti di loro, confrontandosi con la realtà dei palestinesi attraverso viaggi sul posto o nei campus universitari, non capiscono di essere stati spinti ad annullare la loro ebraicità nella fede cieca in un progetto etnonazionalista.

Basta con le Identity politics: non conta se sei oppresso ma se combatti l’oppressione

Nella sinistra postmoderna il discorso sull’oppressione tende a ridursi al punto di vista della vittima. Gli oppressi vengono collocati all’interno di un gruppo indifferenziato la cui unica cifra è l’oppressione stessa. Questo atteggiamento porta ai giudizi ad hominem, poiché non contano tanto le idee ma la posizione in cui si colloca chi le esprime: se non sei un oppresso, non puoi parlare di emancipazione. Se sei un “vecchio uomo bianco”, tenderai sempre e solo a voler mantenere i tuoi privilegi. Le discussioni su chi ha il diritto di parola dovrebbero però lasciare il posto alle discussioni su che cosa ha da dire.