Siamo turisti o viaggiatori?

Il tè nel deserto è un viaggio, sospeso tra turismo e perdizione, nel deserto dell’anima borghese in crisi di identità, nel deserto dell’Altro da Sé di un’Africa tenebra splendente, e infine nel deserto stesso del cinema che sta per cedere il passo, o lo ha appena fatto, a tutto ciò che non sarà più cinema.

Il periodo estivo è anche una zona franca, un intervallo, una parentesi, un’esperienza in qualche modo simile al rifugiarsi in una sala cinematografica. Piace così consigliare un film-sala, ovvero un film che in qualche modo reca inscritta al proprio interno l’esperienza della sala cinematografica. Ormai compromessa, forse.

Tra gli esempi possibili, numerosi, si deve scegliere.

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Il tè nel deserto, regia di Bernardo Bertolucci. Anno di uscita 1990. Sette anni dopo, almeno in Italia, inizia l’epoca post-cinematografica delle multisale. Chi scrive, vide Il tè nel deserto a Roma, al cinema Fiamma, la sala dove nel 1960 aveva debuttato La dolce vita: un bosco di luce, una caverna di Platone, mille posti circa.

I titoli di testa scorrono su materiale d’archivio, virato in blu, riguardante la New York degli anni Quaranta, con un sottofondo jazz molto soft. Un primo piano a testa in giù di John Malkovich, che interpreta Port, l’artista smarrito, a occhi chiusi. Gli occhi si aprono improvvisamente e compare il mare. I colori sono adesso quelli del sole africano.

Una barca si avvicina al molo. Dal basso, spuntano i volti dei tre protagonisti, ancora Port, poi sua moglie Kit (Debra Winger), e infine l’amico Tunner (Campbell Scott, figlio d’arte, dell’attore George C. Scott): tutti e tre salgono la scaletta che conduce al molo. E qui parte subito un effetto di scrittura. L’idea, molto “alla francese”, della cinepresa come penna, o matita, in mano del regista/scrittore: la cinepresa si muove sulla tela dello schermo, e può così scrivere l’immagine. La sala/schermo, tramite l’effetto di scrittura, si inscrive all’interno del film.

La cinepresa panoramica sui tre personaggi, poi si fissa brevemente sui bagagli, angolando dal basso, e va a inquadrare all’improvviso una enorme struttura di ferro, evidentemente un argano portuale. Quindi sale e, sempre tenendo sullo sfondo l’impalcatura, che pare un animale preistorico, scopre in basso i tre viaggiatori, adesso lontani, fermi sul piazzale, ai piedi della “bestia”. Tutto senza stacchi, un’unica inquadratura.

Parte qui il noto dialogo sulla differenza che intercorre tra il viaggiatore e il turista. Port, l’artista smarrito, è il viaggiatore, colui che si perde, Tunner il turista che vuole ritornare a casa, e Kit, la donna, sta a metà fra i due. Ai piedi dell’“elefante di ferro”, sul molo di Tangeri, la cultura borghese si appresta ad attraversare il territorio dell’Altro da Sé, lungo tre differenti prospettive.

Dopo aver sbrigato le procedure doganali, i tre si riposano in una sala da tè. E qui, altro grande effetto di scrittura. All’indomani degli Oscar per L…

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