Genesi della più grande prigione del mondo

Dopo l’indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, lo storico israeliano Ilan Pappé rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Un estratto dal volume “La prigione più grande del mondo” in questi giorni in libreria per Fazi Editore.

L’ateneo sulla collina

Givat Ram, letteralmente “la collina di Ram”, è un quartiere che si sviluppa in maniera caotica su un’altura all’estremità occidentale dell’odierna Gerusalemme. Qui hanno sede diversi ministeri governativi, la Knesset, il Parlamento israeliano, parte dell’Università Ebraica e la Banca d’Israele. Gli israeliani di una certa età, provenienza etnica e background socio-economico hanno maturato una notevole nostalgia per questo luogo. La collina di Ram fa inoltre una brevissima, bucolica apparizione nel primo e più celebre romanzo di Amos Oz, Michael mio, pubblicato nel 1968. Qui è dove: «Intorno ai nuovi uffici del palazzo del primo ministro, pascolano greggi»[1]. Oggi le pecore non si vedono più e i pascoli sono da lungo tempo scomparsi. Hanno lasciato il posto a un elaborato sistema di autostrade, cancelli metallici, ponti sospesi e un roseto alquanto grazioso.

È altamente improbabile che, quando Oz diede alle stampe il suo libro, nei pressi dell’ufficio del primo ministro vi fossero ancora delle pecore. Tuttavia, esse pascolavano su questa altura all’epoca in cui qui sorgeva Sheikh al-Badr, un villaggio rurale palestinese. Alcune delle sue case sopravvivono tuttora, proprio accanto agli hotel americani frequentati dai membri della Knesset che non risiedono a Gerusalemme. Il villaggio era stato gradualmente inghiottito dalla città, diventando parte dell’agglomerato urbano fino a quando non fu etnicamente ripulito dalle forze israeliane nel 1948. Si trattava di un luogo famoso poiché si affacciava su uno dei punti più noti di Gerusalemme: la valle della Croce. È qui che, secondo la tradizione, si ergeva l’albero il cui legno fu usato per costruire la croce di Cristo ed è per questo che, come si racconta, in quel punto i monaci greco-ortodossi edificarono un imponente monastero ancora presente, sebbene circondato dai nuovi quartieri ebraici e dalle vie di circonvallazione.

A ovest del monastero si trova uno dei due campus principali che costituiscono l’Università Ebraica di Gerusalemme. Fu costruito su un terreno confiscato a Sheikh alBadr e poi venduto all’università dal Custode israeliano delle Proprietà degli Assenti (cioè terre teoricamente in attesa di una decisione circa il loro futuro, ma in realtà vendute a qualsiasi persona o impresa ebraiche disposte a pagare un prezzo ridicolo)[2]. Fino al 1948 l’università sorgeva sul monte Scopus, il quale divenne poi “terra di nessuno”, ossia un’isola all’interno della parte giordana della città e perciò inaccessibile. Dopo la guerra, nel giugno 1967, molti dipartimenti del campus di Givat Ram furono trasferiti nuovamente nel vecchio campus sul monte Scopus, che in seguito venne notevolmente ampliato sui terreni confiscati ai palestinesi.

All’incirca nello stesso periodo, a nord del recente complesso universitario fu eretta la nuova dimora del governo israeliano. Malgrado gli edifi…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.