Il tempo della politica incentrata sui leader è finito

L’Italia della Seconda Repubblica da tempo non è più quella del voto per ideologia e appartenenza politica. Continuare a fossilizzarsi sul Leader impedisce di vedere che le correnti di fondo delle scelte elettorali sono mosse dai bisogni della gente comune, anche quando a votare non ci va; e che la politica vince se li interpreta.

L’analisi dei flussi di voto pubblicata in questi giorni dai più importanti istituti di ricerca fornisce, a chi abbia voglia di comprendere, molti indizi interessanti su come la cittadinanza italiana esprime le sue scelte e si fa rappresentare presso le massime istituzioni. Gli spostamenti massicci di voti nel giro di pochi anni da un partito all’altro all’interno della stessa coalizione, come nel caso di Fratelli d’Italia che ha sottratto alla Lega e a Forza Italia quasi tutti i nuovi voti acquisiti, fra partiti diversi, o traghettando verso l’astensione una percentuale inquietante di persone (36,1%, che diventa 53% fra le classi meno agiate) parlano di preferenze che non dipendono più, come è stato durante la Prima Repubblica, da solidi posizionamenti ideologici, culturali e sociali, ma che vengono formulate fra incertezze e smarrimento, e fra nuove forbici che divaricano la differenza di classe. Emblematico il risultato del Movimento 5 Stelle: Giuseppe Conte, dato per politicamente morto da tutti i giornali mainstream, isolato dal progressismo italiano che lo considera niente più che un parvenu, ha condotto un riscatto del suo partito inimmaginabile fino a due mesi fa, consolidando il M5S come primo partito del sud Italia e primo partito fra le persone con condizioni economiche inadeguate.

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Sono elementi che inducono a pensare, innanzitutto perché non nuovi. L’Italia della Seconda Repubblica da tempo non è più quella del voto per ideologia e appartenenza politica. E la ragione principale è il cambiamento delle condizioni socio-economiche. L’Italia post-caduta del Muro di Berlino, quella della frettolosamente proclamata vittoria del liberalismo capitalista, rapidamente si è allontanata da quel breve periodo, coincidente grosso modo con gli anni Ottanta, in cui una società borghese appianata nei suoi conflitti di classe godeva di un benessere distribuito a pioggia. Una condizione effimera e fortunata che dette a molte persone l’agio ozioso di dedicarsi al posizionamento sociale, moralista e culturale.

Dagli anni Novanta in poi è cominciata una predazione, una febbre capitalista che ha portato a continui e costanti colpi di mano verso le classi popolari e subalterne, e sono stati indistintamente la destra (che non era meno estrema di oggi, quando Gianfranco Fini divenne il braccio destro di Berlusconi insieme a Umberto Bossi), il centro democristiano e la sinistra ad alternarsi e collaborare in questa opera di smantellamento delle certezze e garanzie nella distribuzione del benessere, non solo economico ma in termini di dignità umana ed esercizio della piena cittadinanza. Come dimenticare che i prodromi della legge Bossi-Fini, che tuttora rende persone di serie B tanti immigrati e immigrate privandoli di tutti i diritti di cittadinanza e inducendoli alla clandestinità obbligata, si trovavano nella legge Prodi-Napolitano-Turco? E che il primo avvio dello smantellamento dei diritti sul lavoro fu il

Orlando Figes e la copertina di Storia della Russia

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“Storia della Russia. Mito e potere da Vladimir II a Vladimir Putin” di Orlando Figes racconta in che modo la propaganda e il regime di Stato riscrivono la storia della Russia in base ai miti del potere, presentandola in questo modo sia ai russi, sia al mondo esterno. Ma la società russa, spiega lo studioso in questa intervista, non coincide con lo Stato né con la sua propaganda. E però, come dimostrano il protagonismo contadino durante i secoli e l’esperienza rivoluzionaria del 1917, nella sua autodeterminazione democratica non coincide neanche con il modello liberale e occidentalista auspicato dall’intelligencija, la quale a sua volta sconta uno scollamento sempre più forte dalla società.

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Governo Sánchez in Spagna. Sánchez e Iglesias alla Moncloa

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