L’Italietta littoria

Da MicroMega 2/1995 ripubblichiamo tre reportages del grande scrittore austriaco Joseph Roth che offrono un quadro originale e deprimente dei primi anni della dittatura fascista. Dalla spia al poliziotto, al giornalista di regime: ritratti dal nostro album di famiglia.

Presentazione: L’inviato speciale Joseph Roth

di Marino Freschi

Cominciò Heine. A Parigi. In esilio. Così nacque il feuilleton tedesco. E fu subito un successo che rivoluzionò la scrittura letteraria tedesca. La rinnovò, la svecchiò. Le diede il brio, la malizia, la rapidità, la moderna eleganza, il nervosismo e una paradossale, dissacrante, malinconica ironia ebraica. E fu subito moda, proseguita da Ludwig Borne, l’altro intellettuale ebreo, anche lui esule a Parigi, assai più radicale e arrabbiato contro la Santa Alleanza, contro la «miseria tedesca», acerrimo rivale di Heine, che nel duello pubblicistico ebbe la meglio. L’altro grande «giornalista» culturale ebreo, sempre esule a Parigi e per anni intimo di Heine, fu Karl Marx, la cui pubblicistica politico-culturale degli anni Quaranta è fra le sue produzioni più felici.

Uno strano destino, quello, degli scrittori ebrei di lingua tedesca: si affacciavano sulla scena, alquanto paludata, eternizzante della Grande Letteratura germanica e se ne ritraevano in nicchie appartate, emarginandosi, ma anche costruendo un’alternativa letteraria, una postazione privilegiata, dà cui operavano da innovatori, da guastatori, da testimoni. E proprio Heine è stato il punto di riferimento obbligato di Joseph Roth. Il piccolo scolaro lascia la sua cultura yiddish della Galizia asburgica per elevarsi alla grande cultura europea attraverso la Germania di Lessing, di Goethe e Schiller ma soprattutto di Heine, il maestro riconosciuto, di cui scrisse che era «un personaggio immortale, malato di nostalgia, figlio della Germania, perduto e lunatico, geniale ed emarginato». Questo giudizio potrebbe ora applicarsi proprio a lui, a Joseph Roth, l’orfanello di Brody, cresciuto senza padre, alla «corte» chassidica del nonno materno. Ma voltò le spalle all’ebraismo orientale per Vienna, per la cultura laica, per l’utopia sociale e socialista, che avrebbe dovuto sanare i contrasti etnici e storici della Mitteleuropa. Il sogno, rapidamente infranto, si trasformò in un incubo senza fine, senza pietà che continua ancora il suo spettacolo di sangue nei Balcani, in quella Sarajevo dove pure ebbe inizio. La distruzione del «mondo di ieri» lo inquietava con una straordinaria urgenza narrativa. Il risveglio dell’ebraica capacità affabulativa si consumò nel feuilleton, dal 20 aprile 1919 fino alla morte nel 1939, a Parigi, esule. E si sono contati più di 3.500 interventi, spesso raggruppati in saggi e libri, spesso elaborati in romanzi e racconti. H. Pongs, uno dei più raffinati critici letterari tedeschi, ha parlato dell’«eleganza heiniana» di Roth, mentre Peter Wapnewski – altro autorevole germanista – ne ha celebrato lo stile quale «la più limpida prosa tedesca della prima metà del XX secolo». E Hermann Kesten, colui che lo riscoprì alla fine della guerra, lo considera «un maestro del feuilleton tedesco, colui che seppe creare il feuilleton dalla propria esistenza e dalla vita contemporanea». I viaggi da inviato speciale in Urss, in Francia e in Italia nel 1928 sono occasioni cruciali per fare i conti con se stesso e con la storia del nostro tempo. Gli articoli sull’Italia del Duce sono cosi critici che la Frankfurter Zeitung, il più prestigioso quotidiano liberal della Repubblica di Weimar che glieli aveva commissionati, si sentì in dovere di censurarli, suscitando l’amarezza e la delusione dell’autore. Ora restaurati forniscono un’ulteriore prova di chiaroveggenza, di disillusione, testimoniano dell’impegno civile a resistere, a opporsi alle forze della disintegrazione. Era, la sua, una singolare lotta donchisciottesca: il suo antifascismo fu la sua più commossa ispirazione artistica: quella che lo condusse a far pace con il passato, con Casa d’Austria e con l’ebraismo orientale. Solo così gli poteva riuscire di conciliare, nella memoria e nella scrittura, Giobbe con Radetzki in nome di una patria segreta, una «heimliche Heimat», che è un altro modo per dire esilio e ricerca, smarrimento e approdo. Una lunga peripezia fu quella di Roth che prese le mosse dalla redazione di quel piccolo giornale viennese dei suoi esordi per attingere la Grande Letteratura.

JOSEPH ROTH: L’lTALIETTA LITTORIA

Primo incontro con la dittatura

Nel 1922 Mussolini confessò a un inviato speciale di Temps di Parigi «di essere stato in tutta la sua vita solo tre volte in un museo» perché «non aveva tempo per abbandonarsi nel regno delle ombre alle fantasticherie». Appena un anno e mezzo dopo, nell’aprile del 1924, divenuto cittadino di Roma, dichiarò di vedersi costretto «a riflettere sull’eternità di Roma ogni volta che passava tra le rovine viventi del foro». Dunque, a quanto pare, si è riconciliato con il regno delle ombre, a cui da allora in Italia non si dà più pace. Infatti in molte città italiane diligenti archeologi scavano alla ricerca di nuove antichità e il regime fascista è impegnato ad esibire una testimonianza la più completa possibile del grande passato.

Un cronista, tuttavia, che oggi si rechi in Italia, ha motivo sufficiente per comportarsi come il Mussolini del 1922. In un museo dovrebb…

Autonomia differenziata, fermiamola ora o sarà troppo tardi

L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.