Anche in base alla mia esperienza professionale – ho visto da vicino mafia e antimafia: sono stato Capo della procura di Palermo dal 1993 al 1999, dove ho chiesto io di essere trasferito da Torino, la mia città, dopo le stragi del ‘92 di Capaci e via d’Amelio; successivamente, in qualità di Capo della procura di Torino, ho curato numerosi processi sugli insediamenti della ‘Ndrangheta in Piemonte – posso affermare che l’Italia è sì un Paese con gravi problemi di mafia, ma anche il Paese dell’antimafia. Lo possiamo rivendicare orgogliosamente.
In primo luogo, per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Lo storico Salvatore Lupo riconduce la loro “eredità” a questo concetto: le vittime di violenza mafiosa sono state soprattutto straordinarie creatrici di credibilità e rispettabilità. Vale a dire che, operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo Stato alle persone, che così riescono a dare un senso alle parole “lo Stato siamo noi”.
Siamo il paese dell’antimafia pure per i familiari delle vittime: anch’essi vittime, perché vivono un continuo, immenso dolore che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Col sostegno di Libera, hanno trasformato il loro dolore in testimonianza e denunzia pubbliche. Chiedono giustizia e non vendetta.
Siamo il paese dell’antimafia per la legislazione d’avanguardia, imperniata sul 416 BIS del codice penale, che vieta e punisce la mafia in sé e per sé: non più soltanto gli specifici reati dei mafiosi come omicidi, estorsioni, traffici di droga, ma appunto la stessa organizzazione che li realizza. Una rivoluzione! I magistrati e le forze dell’ordine (nel 1982) si trovano a disporre di un nuovo, formidabile strumento. Prima, senza 416 bis, senza reato associativo, “pretendere di sconfiggere la mafia era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana” (così Falcone). La potenza dell’articolo 416 bis sta nel fatto di essere calibrato sulla concreta realtà della mafia. Spiega che l’appartenenza al gruppo criminale vincola i mafiosi all’obbedienza verso i capi e al segreto verso l’esterno e che i mafiosi praticano un metodo criminale basato su intimidazioni e violenza allo scopo di commettere delitti, gestire o controllare attività economiche, realizzare vantaggi ingiusti, orie…