“Agli albori Internet parve rappresentare una minaccia
per i regimi autoritari ma, con l’avvento dei social
media, stiamo assistendo alla costruzione di architetture
che soddisfano i bisogni di ogni regime autoritario”[1].
Christopher Wyle
“La libertà di stampa è la libertà di duecento
facoltosi di diffondere la loro opinione”[2].
Paul Sethe
(fondatore di Frankfurter Allgemeine Zeitung)
L’indignazione non cambierà il mondo
Nel 2012, anno fatidico dell’indignazione, davanti allo spettacolo dei quartieri spuntati a fungaia nelle principali città dell’Occidente – dalla madrilena Puerta del Sol allo Zuccotti Park di New York – in cui i cittadini contestavano l’egemonia della finanza che li aveva asserviti, due importanti intellettuali scrissero i loro saggi; che si concludevano allo stesso modo: l’indignazione avrebbe redento il mondo.
“A quanto pare, la Parigi e la Torino del 1968 non sono state ancora del tutto dimenticate. Da questo punto di vista, gli occasionali scontri di piazza ad Atene e il movimento globale di Occupy e del ‘novantanove per cento’ sono un buon inizio”[3], commentava Wolfgang Streeck, allora direttore del Max-Planck-Institute di Colonia.
“La vera trasformazione sta avvenendo nelle menti delle persone. Se pensano in modo diverso, se mettono in comune la propria indignazione e custodiscono la speranza di cambiare, allora la società alla fine cambierà secondo i loro desideri”[4], andava a sintesi Manuel Castells, professore emerito di City and Regional Planning alla University of California, in Berkeley. E il New York Times poteva chiosare che il 2012 “è stato il ritorno sulla scena della seconda superpotenza mondiale”: la mobilitazione della società civile su scala planetaria.
È amara constatazione prendere atto che – alla fine di quell’anno – i principali governi correvano al salvataggio degli istituti finanziari oggetto della contestazione indignata, con robuste immissioni di capitali pubblici nelle loro casse; in larga misura virati a benefit per quegli stessi banchieri. Nell’autunno dello stesso anno l’ex Goldman Sachs Mario Draghi – “il Migliore dei migliori” dell’agiografia nazionale, che l’anno prima si era issato alla presidenza della Banca Centrale Europea – annunciava il piano di acquisto, a un prezzo fissato a tempo indeterminato e con denaro fresco proveniente dalla Banca centrale, dei titoli di Stato dei paesi indebitati; però, rilevandoli dalle banche che li avevano dovuti comprare da quegli stessi Stati.
Da qui il commento tra l’amaro e il beffardo del solito Streeck: “I governi, primo fra tutti quello degli Stati Uniti, si mantengono saldamente nella morsa delle industrie produttrici di denaro. Queste, a loro volta, sono state generosamente rifornite di denaro a basso costo, creato per loro conto dagli amici delle banche centrali – tra cui spicca l’ex uomo di Goldman Sachs, Mario Draghi, al timone della BCE -, denaro su cui poi si siedono o che investono in debito pubblico”[5].
Ecco – dunque – fare capolino il motivo per cui una sollevazione indignata di tale entità, e pure promossa mediaticamente ad amplissimo raggio, sia sfociata in nient’altro che un nulla di fatto. O meglio, abbia rapidamente esaurito la sua carica contestativa, lasciando intuire quelli che sono i tratti salienti del potere; in consolidamento – zitto, zitto – da alcuni decenni:
- Si sottrae a qualsivoglia forma di controllo eliminando i contrappesi (il cosiddetto divorz…