Siamo nel 1947, l’Italia è impegnata nella ricostruzione, deve riprendersi dalla miseria della guerra e del nazifascismo. È ora di rialzarsi, imparare di nuovo a camminare, trovare spazi di libertà che fungano da propulsore mentale ed economico per un’Italia nuova, fiorente, democratica e repubblicana. C’è, in questo contesto, chi pensa che l’arte e la cultura siano il carburante più adatto per una ripartenza reale, viva, che proceda su basi solide. Fra questi, ci sono due giovani amici, Giorgio Strehler e Paolo Grassi.
Il primo regista e attore, il secondo impresario teatrale. I due hanno un sogno in comune: quello di fondare, a Milano, un teatro nuovo, diverso da quello convenzionale, che non sia né di intrattenimento popolaresco né un’astratta ricerca riservata all’élite intellettuale. Un ”teatro d’arte per tutti”, che diventi una ”necessità collettiva”, un ”bisogno dei cittadini”, e che perciò venga finanziato dalle istituzioni.
Un giorno di febbraio del 1947, i due amici aprono con un calcio un portone in via Rovello 2, a Milano. Dentro trovano un vecchio cinema-teatro abbandonato e subito un brivido li scuote. A dire la verità, è più un brivido di freddo che di emozione: la sala è gelata, la temperatura sotto zero. Sul palco, un fascio di luce: il sole, entrando da una fessura, sta dando spettacolo, fendendo in due l’aria gelida per arrivare a illuminare le tavole di legno del proscenio.
È una sala modesta, “disgraziatissima”, con calcinacci dappertutto, le sedie divelte e il sipario tirato su a metà. I due amici rimangono lì qualche minuto, poi Paolo lascia Giorgio da solo. Immerso nel gelo invernale, Strehler deve capire se quel luogo possa davvero diventare il teatro in cui realizzare il loro sogno. Rimane lì per oltre un’ora, immaginandosi scene, personaggi, luci. È un teatro “piccolo”, pensa, sarà adatto ad ospitare i nostri spettacoli?
Qualche mese prima, Strehler e Grassi si erano rivolti alla giunta …