Iran, la rivoluzione dei capelli al vento

Per anni, mentre le donne iraniane denunciavano inascoltate il regime di apartheid di genere, le politiche occidentali legittimavano la Repubblica Islamica indossando il velo durante le visite ufficiali, normalizzando così l’oppressione delle donne per evitare di “suscitare islamofobia”. Ma le proteste del 2022 stanno facendo capire al mondo che le donne e gli uomini iraniani vogliono vivere liberi.
Iran la rivoluzione dei capelli al vento

Un punto di non ritorno

L’assassinio brutale di Mahsa Amini è un punto di non ritorno per le donne e gli uomini iraniani. Aveva solo 22 anni, Jina era il suo nome curdo. Era arrivata dalla sua città, Saqqez, a Teheran. Portava il velo, ma i suoi capelli non erano totalmente coperti. Le autorità l’hanno fermata per intimarle di indossare il hijab nel modo appropriato, e l’hanno arrestata. Dopo alcuni giorni, alla sua famiglia è stato restituito un cadavere.

Ma Mahsa Amini non è morta. Vive in milioni di iraniani e iraniane per i quali è diventata un simbolo della resistenza. Un simbolo della lotta contro il governo iraniano e contro la dittatura della Repubblica Islamica. Per tanti anni abbiamo messo in guardia il resto del mondo riguardo ai pericoli dell’imposizione del hijab. Siamo state ignorate. È stato necessario che Mahsa venisse uccisa: ora tutto il mondo conosce il suo nome.

Le giovani donne iraniane nei giorni successivi sono scese in strada gridando “Siamo tutte Mahsa”. Piene di rabbia, hanno iniziato a bruciare i loro hijab, a tagliarsi i capelli, a gridare “Jin, Jîyan, Azadî”, “Donna, vita, libertà”. E tante di loro sono state ammazzate. Solo per aver urlato pacificamente che vogliamo libertà e dignità. Che vogliamo scegliere cosa indossare. Giovani donne e giovani uomini, fianco a fianco, stanno scendendo in strada, rischiando la loro vita, perché vogliono dire no alla dittatura religiosa. Che li ha uccisi.

La loro rabbia mostra al resto del mondo che vogliono mettere fine al regime dell’apartheid di genere. La storia di Mahsa ricorda a tante persone la loro storia, quella delle loro figlie. Sono convinta che questa protesta di massa così ampia, in tutto il territorio iraniano, sia un punto di non ritorno anche per il regime. Anche in passato ci sono state grandi proteste e il regime è sempre riuscito a soffocarle, ma questa è diversa. È la prima volta che le donne bruciano il velo in piazza pubblicamente.

E il velo non è un simbolo qualunque. È il principale strumento di controllo che il regime possiede nei confronti della società. Bruciarlo pubblicamente significa dire ai dignitari del regime: “Non potete più controllarci”. Il regime islamico iraniano si basa su tre pilastri fondamentali: il primo, morte all’America. Il secondo, morte a Israele. E il terzo è il velo obbligatorio. Sono convinta che oggi il velo obbligatorio sia il punto debole del regime. È il loro Muro di Berlino: se le donne lo abbattono, la Repubblica Islamica cade.

Questa per me è una rivoluzione, è l’inizio della fine della Repubblica Islamica. Quante persone ne sono consapevoli? Forse molte. Sicuramente ne è consapevole il regime, che infatti sta reagendo con grande brutalità alle proteste. Non accadrà nel corso di una notte, ma è l’inizio della fine. È un processo, e ricorda l’epoca in cui gli iraniani cercarono di far cadere il regime dello Scià.

Un processo che i più anziani ricordano (e rimpiangono) in alcuni passaggi fondamentali che ora si stanno ripetendo. Per esempio, lo sciopero generale. Anche oggi vediamo alcuni settori di lavoratori scendere in strada per protestare: gli insegnanti, i lavoratori dei bazaar… Se loro dovessero chiamare allo sciopero generale, anche quello sarebbe un colpo importante contro il regime.

Quando la scelta è “il velo o l’inferno”

Per me il velo è come una prigione. Uno strumento usato per opprimermi. Come milioni di bambine in Iran, fui obbligata a in…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.