Erano le tre del pomeriggio dell’8 gennaio e l’invasione del Congresso, del Palazzo del Planalto e della sede della Corte Suprema era iniziata già da un’ora e procedeva indisturbata, senza alcun ostacolo da parte delle forze di sicurezza. Tra i membri della polizia militare, c’era chi si faceva selfie con i sostenitori di Bolsonaro.
Era il primo deciso segnale di un appoggio ai golpisti, tacito e meno tacito, da parte di settori delle forze dell’ordine e dei militari – la principale differenza tra l’invasione bolsonarista delle istituzioni e l’assalto trumpista a Capitol Hill – che sarebbe poi venuto alla luce in maniera sempre più clamorosa nelle ore e nei giorni immediatamente successivi. Lo stesso Lula avrebbe parlato esplicitamente di connivenze dell’esercito e della polizia militare con i manifestanti.
Brasile: prove tecniche di golpe
Era da settimane che i comandanti di alcune caserme fraternizzavano con i golpisti accampati di fronte a loro, molti dei quali militari in pensione e familiari di militari in servizio attivo. E malgrado non mancassero di certo informazioni sui preparativi dell’assalto – bastava dare un’occhiata alle reti sociali – nessuno si era mosso. Non sorprende allora che la polizia militare della capitale federale abbia facilitato l’azione dei bolsonaristi né che l’esercito si sia schierato a protezione dell’accampamento da loro mantenuto per più di due mesi di fronte al quartier generale.
Ma c’era da aspettarselo: le forze militari avevano già assunto un protagonismo via via più marcato, arrogandosi il diritto di intervenire in caso di crisi tra i poteri o di convulsione sociale, come era emerso chiaramente già nel 2018, quando, alla vigilia dell’arresto di Lula, il generale Eduardo Villas Bôas non aveva esitato a minacciare velatamente l’int…