Le condizioni di base del war reporting rimangono le stesse nel corso del tempo. Per quanto la tecnologia avanzi, le zone di guerra rimangono un luogo al quale il singolo cittadino non può avere completo accesso. Ammesso che le barriere geografiche e culturali possano considerarsi abbattute – la globalizzazione incontra infatti inaspettate “sacche di resistenza” – e che l’interconnessione di rete consenta di accendere un riflettore in qualsiasi luogo, la guerra è ancora un tipo di racconto che ha bisogno di una certa dose di mediazione, anche e soprattutto da parte del giornalismo. L’evoluzione congiunta delle possibilità tecnologiche e delle modalità in cui le immagini che vengono reperite sono oggetto di mediazione / manipolazione è non da oggi fonte di interessanti paradossi. L’immagine (nel senso materiale del termine) ha avuto un ruolo inesorabile nell’impatto che il racconto della guerra ha esercitato sulla pubblica opinione, a partire dall’esperienza del Vietnam per arrivare alla prima guerra del Golfo. E qui individuiamo ben due paradossi. Il primo, il più noto, riguarda l’evoluzione di un war programming parallelo al war reporting, in grado di anticipare e guidare l’opera di mediazione giornalistica attraverso il contenimento fisico dei giornalisti, che si trovano embedded (letteralmente: incorporati) alle forze armate dislocate sul luogo, e la preparazione di rapporti così accurati da non necessitare ulteriori interventi per “portare a casa” la notizia. Il secondo è ben espresso da un altro importante studioso di comunicazione e ricerca sociale, Elihu Katz, che in un intervento dell’estate del 1992 si interroga sulla fine del giornalismo, registrando nella corsa alla trasmissione costante di immagini e notizie dal campo la perdita di una funzione editoriale: la selezione, il taglio e l’ordinamento di tali immagini.
Entrambi questi paradossi producono sviluppi interessanti in occasione del secondo conflitto nel Golfo.
Il war programming si affina, mescola sapientemente le routine giornalistiche con quelle tecniche di storytelling che ormai da anni si dimostrano in grado di rendere vincente ogni tipologia di propaganda, da quella politica a quella commerciale, e definisce nuove pratiche di mal-information. Lasciamo questo termine in inglese per sottolineare una distinzione che non sempre il termine italiano “disinformazione”, o il più classico “mala informazione”, sono in grado di rendere. Un celebre report prodotto nel 2017 per il Consiglio d’Europa chiarisce come “mal-information” si riferisca a un’informazione basata sulla realtà, utilizzata per infliggere danno a persone, organizzazioni o Paesi, distinguendola così dalla “mis-information”, informazione falsa ma diffusa senza l’intenzione di creare danno, magari proprio per placare la fame dell’informazione continua, e dalla “dis…