L’Ungheria vent’anni dopo il referendum sull’adesione all’Ue

Sono passati vent’anni da quando, sotto il governo Medgyessy, il popolo magiaro si pronunciò a favore dell’entrata nell’Ue. In seguito all’effettiva adesione, la popolazione mostrò un entusiasmo superficiale e in sostanza passivo, percependosi come un membro entrante di second’ordine e perdendo inoltre presto le speranze per una conseguente crescita economica. I successivi governi Orbán hanno fatto il resto, inaugurando un braccio di ferro con Bruxelles che dura ancora oggi anche alla luce delle posizioni di Budapest sul conflitto in Ucraina.
Ungheria Unione Europea

Il 12 aprile di vent’anni fa l’Ungheria andava alle urne per rispondere al referendum sull’adesione del paese all’Unione Europea. Votò a favore quasi l’84% dei votanti, in senso contrario poco più del 16%; l’affluenza si avvicinò al 46%.

All’epoca lo Stato danubiano era retto da un governo di centro-sinistra formato dai socialisti (MSZP) e dai liberaldemocratici (SZDSZ) e presieduto dall’ormai quasi ottantunenne Péter Medgyessy, già ministro delle Finanze fra il 1987 e il 1996, un economista laureatosi all’Università Karl Marx di Budapest, oggi Corvinus. Medgyessy aveva assunto ufficialmente il ruolo di primo ministro nel maggio del 2002, dopo che – smentendo i sondaggi – l’alleanza da lui rappresentata come candidato premier era uscita vittoriosa dalle elezioni politiche del mese precedente prevalendo sulle forze governative allora in carica, guidate da Viktor Orbán. Gli aventi diritto erano andati a votare al termine di una campagna elettorale velenosa, in cui l’esecutivo aveva provveduto a indicare chiaramente la distinzione fra i veri ungheresi e i traditori della patria. Semplificato, il messaggio degli arancioni di Orbán e dei loro alleati riconosceva la qualità di veri ungheresi a coloro i quali si accingevano a votare per le forze governative. Alla luce di quanto accadde allora possiamo dire che furono le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo col ritorno al potere dell’“uomo forte d’Ungheria”.

Ma proviamo a ripercorrere le tappe del percorso ungherese verso l’ingresso nell’Ue: nel maggio del 1994 il Paese presenta domanda di adesione, i negoziati poi si svolgono fra il 1998 e il 2001. Nell’aprile del 2003, poco dopo l’esito favorevole del referendum, l’adesione del Paese all’Unione viene approvata dal Consiglio d’Europa e, sempre ad aprile di quell’anno, seguita dalla firma del Trattato di adesione.

Fu quindi il governo Medgyessy a guidare il Paese nelle ultime fasi del processo di integrazione nell’Ue con un lavoro di propaganda che sembrò, comunque, non aiutare più di tanto la popolazione a divenire realmente protagonista del passo storico compiuto di lì a poco. Una popolazione che, a dire il vero, era abituata a farsi guidare dall’alto e che aveva esaurito il grosso dei sogni negli anni successivi alla svolta del 1989, svolta che era stata accompagnata dall’ingenua illusione che in capo a una decina d’anni il livello di vita della popolazione avrebbe eguagliato quello della confinante Austria. Sappiamo che non fu così. L’Ungheria, che era diventata membro della Nato nel 1999, entrò ufficialmente nell’Ue il primo maggio del 2004. Ci furono grandi festeggiamenti organizzati dalle autorità: le strade della capitale erano invase di gente, ma sembrò che lo spirito di partecipazione fosse più o meno quello dei non rari eventi pubblici che si svolgono nel Paese in diverse occasioni e verso i quali gli unghe…

Israele, la memoria dell’Olocausto usata come arma

La memoria dell’Olocausto, una delle più grandi tragedie dell’umanità, viene spesso strumentalizzata da Israele (e non solo) per garantirsi una sorta di immunità, anche in presenza di violenze atroci come quelle commesse a Gaza nelle ultime settimane. In questo dialogo studiosi dell’Olocausto discutono di come la sua memoria venga impiegata per fini distorti, funzionali alle politiche degli Stati, innanzitutto di quello ebraico. Quattro studiosi ne discutono in un intenso dialogo.

Libano, lo sfollamento forzato e le donne invisibili

La disuguaglianza di genere ha un forte impatto sull’esperienza dello sfollamento di massa seguito alla guerra nel Libano meridionale. Tuttavia, la carenza di dati differenziati rischia di minare l’adeguatezza degli aiuti forniti e di rendere ancora più invisibile la condizione delle donne, che in condizioni di fuga dalla guerra sono invece notoriamente le più colpite dalla violenza e dalla fatica del ritrovarsi senza casa e con bambini o anziani a cui prestare cure.

Come il fascismo governava le donne

L’approccio del fascismo alle donne era bivalente: da un lato mirava a riportare la donna alla sua missione “naturale” di madre e di perno della famiglia, a una visione del tutto patriarcale; ma dall’altro era inteso a “nazionalizzare” le donne, a farne una forza moderna, consapevole della propria missione nell’ambito dello Stato etico; e perciò a dar loro un ruolo e una dimensione pubblica, sempre a rischio di entrare in conflitto con la dimensione domestica tradizionale. Il regime mise molto impegno nel disinnescare in tutti i modi questo potenziale conflitto, colpendo soprattutto il lavoro femminile. Ne parla un libro importante di Victoria de Grazia.