Il processo costituente ha svelato le debolezze della sinistra in Cile

In Cile prosegue con estrema difficoltà il processo per approvare una nuova Costituzione e scalzare finalmente quella varata nel 1980 da Pinochet. Le proteste del 2019-2020, che avevano fatto emergere la figura dell’attuale Presidente Gabriel Boric e un'iniziale ascesa della sinistra in Cile, sembravano l’alba di un nuovo cambiamento. Ma la bocciatura con voto popolare della nuova proposta di Costituzione avvenuta nel 2022 ora rischia di consegnare il processo nelle mani dell’estrema destra.

È un Cile bipolare quello in cui sta andando in scena il processo costituente forse più tormentato della storia. Un Cile capace, in neanche quattro anni, di passare dall’anelito di Salvador Allende quello dei “grandi viali per dove passerà l’uomo libero per costruire una società migliore” – alla brutale realtà dell’eredità di Pinochet. Dal sogno della sinistra in Cile di un’Assemblea realmente libera e sovrana all’incubo di una nuova Costituzione (ri)scritta dall’estrema destra. Dalla passione politica – anche scomposta, magari, ma sicuramente generosa – all’apatia e all’indifferenza. 

Tutto è cominciato il 18 ottobre del 2019, quando gli studenti di Santiago, per protestare contro l’ennesimo aumento del costo del trasporto pubblico, avevano iniziato a scavalcare i tornelli della metro senza pagare il biglietto. Nessuno, allora, avrebbe potuto prevedere che quell’atto di disobbedienza civile, nella felice oasi cilena di cui l’inconsapevole presidente Piñera si era vantato appena qualche giorno prima, avrebbe segnato l’avvio dell’evento politico più importante della storia del Cile degli ultimi decenni. A essere prevedibile era stata invece la reazione del governo: carri armati per le strade come durante il regime di Pinochet, violenta repressione dei carabineros, uccisioni, lesioni, abusi sessuali, torture. Una reazione che tuttavia non era bastata a soffocare la rivolta anti– governativa, sotto lo slogan “Non sono 30 pesos, sono 30 anni”, in riferimento ai tre decenni dalla fine della dittatura segnati dalla stessa oppressione, dalla stessa disuguaglianza, dagli stessi abusi.

Atterrite da una mobilitazione che minacciava di spazzarle vie puntando dritto verso la creazione di una vera Assemblea costituente, le forze politiche tradizionali avevano optato per il male minore: canalizzare la protesta sacrificando sì la Costituzione di Pinochet, ma – attraverso l’“Accordo per la pace” del 15 novembre del 2019 – fissando paletti ben precisi che consentissero loro di mantenere il controllo. A cominciare dal contestatissimo quorum dei due terzi – per consentire a una minoranza del 33% legata agli interessi della classe imprenditoriale di esercitare il suo potere di veto contro qualunque cambiamento diretto a superare il modello neoliberista – o dall’altrettanto problematico divieto di modificare i trattati internazionali. Ossia proprio quelli che hanno assicurato buona parte del saccheggio portato avanti negli ultimi trent’anni. Un accordo che la parte più attiva dei manifestanti aveva subito interpretato come una colossale trappola – già evidente dalla cura con cui si era evitato di utilizzare l’espressione “Assemblea costituente”, optando su una più rassicurante “Convenzione costituzionale” – ma che avrebbe raggiunto precisamente lo scopo che si proponeva: quello, da un lato, di mettere un punto all’estallido social e, dall’altro, di consentire ai partiti tradizionali di mantenere salda la presa sul processo di riscrittura della Carta costituzionale.

Con tutti i limiti, tuttavia, l’esito del plebiscito del 25 ottobre 2020 –  quando la popolazione era stata chiamata a pronunciarsi a favore o contro il nuovo processo costituente – non aveva lasciato dubbi sulla volontà di mandare al macero la Costituzione di Pinochet: l’Apruevo aveva vinto con il 78,27% dei voti contro il 21,73% dei Rechazo e la scelta dell’organismo incaricato di redigere la nuova Carta era caduta massicciamente sulla Convenzione costituente votata al 100% dal popolo (79%), rispetto alla Convenzione mista composta per metà da rappresentanti eletti e per l’altra metà dagli attuali parlamentari  (21%). E ugualmente esplicito era stato il risultato delle elezioni del 14 e 15 maggio del 2021 per la formazione della Convenzione costituente, con la clamorosa sconfitta dei partiti tradizionali a vantaggio delle forze indipendenti protagoniste della ribellione popolare, benché il rapporto di forze all’interno dell’organismo lasciasse comunque aperte le porte a un’alleanza, almeno su a…

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