Fino a non molto tempo fa sui social infuriava il dibattito per stabilire se l’illustrazione di software come Midjourney o altre IA potesse essere ritenuta “arte” o meno. Nello specifico, molte voci si sono levate dal mondo del fumetto: probabilmente, perché molti disegnatori si saranno sentiti minacciati dal “rivale” post-umano e, dunque, lo squalificavano, nel migliore dei casi, come capace di produrre al più manufatti “poco interessanti”.
Anche io mi sono posto diverse domande sul tema, ma di tipo leggermente diverso.
Per esempio, mi sono chiesto come mai gli sviluppatori di questi software abbiano pensato a una traduzione del testo in illustrazioni ma non il contrario, ovvero a una sorta di ecfrasi: partendo da un’immagine – ideale copertina del libro, come la concepivano anche Roberto Calasso e i suoi sodali di Adelphi in contrapposizione al bianco o, al massimo, all’astrattismo geometrico (che poi, è la stessa cosa: nel Modernismo sempre e comunque il nulla dello spirito) della rivale Einaudi – ricavare un testo di lunghezza variabile.
Non credo che si sia trattato di difficoltà intrinseca al processo se si è preferita la trasposizione dal testo all’immagine piuttosto che il suo contrario. Se si è voluti andare nella direzione dell’illustrazione, intesa come traduzione della temporalità nella spazialità, è perché, io credo, ci sia una causa ben più profonda, come cercherò di enucleare in seguito.
Se dovessimo riscrivere l’espressione “dal testo all’immagine” nei termini definiti da Peirce e da de Saussure, potremmo dire che si è andati nella direzione dell’icona, che ha un rapporto di analogia con il referente perché non totalmente immotivata, piuttosto che del segno linguistico, che secondo Saussure è radicalmente arbitrario.
Preferiamo, come ricorda anche Jean Piaget in un saggio sullo strutturalismo, la terminologia del linguista ginevrino a quella di Peirce, il quale invece impiega il termine “simbolo”, in quanto questo più vicino all’icona: i simboli sono motivati e appartengono alla dimensione collettiva – come archetipi – ma anche individuale, come nel caso della produzione onirica; il segno, invece, ha valenza meramente sociale.
Insomma, quello che ha fatto l’IA – o, meglio, che gli hanno voluto far fare – è di trasporre il segno in icona: pura illustrazione, questa, lo ripetiamo, la cui novità sta nel fatto che, stavolta, si è trattato di un processo puramente artificiale. Ma se si è scelta l’icona visiva come punto di approdo è perché, a mio parere, quest’ultima rappresenta per sua natura la specificità dell’immagine artificiale, cioè elaborata dalla macchina digitale. Il processo però non è nato con Midjourney, ma affondava le sue radici ben prima. Ancora una volta, a costituire la svolta è forse stata proprio la fotografia.
La peculiarità del linguaggio fotografico dalle origini agli anni Ottanta del Novecento – fino cioè alla digitalizzazione del processo – consiste nell’appartenere a quel terzo tipo di segni identificato da Peirce come indice. Un indice è una traccia, un’impronta, un’ombra, un qualcosa cioè che ha un rapporto identitario con il referente: esso è l’oggetto che rappresenta.
Abbiamo visto come il segno linguistico (la parola) sia totalmente arbitrario; come l’icona (la pittura figurativa) sia motivata perché legata al referente da un rapporto di somiglianza; e come, infine, l’indice (la fotografia analogica) sia legato al referente da un rapporto di identità.
Analizzando la natura di questi tre tipi di segni possiamo fare delle considerazioni sotto il profilo della logicità degli stessi.
Partiamo dal segno linguistico: esso è radicalmente arbitrario, perché, come affermava De Saussure, non c’è alcun tipo di legame analogico tra il “concetto” (significa…