Il problema
Recentemente ho visitato la Cambogia con una missione della Banca Mondiale dedicata allo sviluppo della finanza digitale. La Cambogia, che soltanto sino a un paio di decenni fa era annoverata fra i Paesi “poveri”, oggi è una nazione con un’economia cosiddetta “emergente”, vibrante e in forte crescita, con una società dall’età media molto giovane e assai dinamica. Visitando il Paese, e intrattenendo contatti approfonditi con le locali realtà sociali meno avvantaggiate, mi ha colpito soprattutto osservare la determinazione con cui il governo – fortemente autocratico – è impegnato ad assicurare che la crescita economica sia sostenibile e inclusiva. Come i risultati dimostrano, il governo persegue efficacemente importanti obiettivi di lungo termine, quali lotta alla povertà e riduzione delle disuguaglianze, formazione delle giovani generazioni, protezione di ambiente e biodiversità, sostegno a energie rinnovabili ed economia circolare. A quest’ultimo riguardo, basti considerare gli sforzi riposti nell’orientare l’economia nazionale verso i principi dell’economia circolare.
Ma non è della Cambogia in quanto tale che intendo parlare in queste righe, quanto invece del confronto – inevitabilmente provocatorio – che l’osservazione di un tale Paese suscita fra la capacità decisionale efficace possibile in regimi di governo di stampo dirigista da un lato e, dall’altro, quella stessa capacità andata così grandemente erosa nelle nostre democrazie bloccate, soprattutto a fronte delle sfide collettive – per esempio quella climatica, demografica, dell’automazione e delle diseguaglianze sociali – che implicano conseguenze rilevantissime per le generazioni future, le quali, per definizione, nelle democrazie non hanno rappresentanza diretta tra gli elettori. In altri termini: se non è lo Stato a intervenire sulla società a tutela di chi non ha voce per il semplice fatto di non essere ancora nato, preoccupandosi di proteggerne il diritto ad accedere all’uso di risorse scarse di cui avrà bisogno quando sarà al mondo, chi altri potrà farlo in contesti politici dove possono essere fatti valere soltanto i diritti di chi è presente e può esprimere la propria voce? E, soprattutto, chi potrà farlo allorché gli interessi di chi rappresenta la voce dei presenti sono sempre più dominati da preoccupazioni immediate e sorrette dalla necessità di acquisire consenso popolare istante per istante, in una dimensione politica dove conta solo l’“ora e adesso” e “domani” è già un futuro lontano?
Certo, l’esperienza delle democrazie nord-europee in tema di sostenibilità offre una dimostrazione convincente che non è affatto impossibile coniugare governo del popolo e obiettivi di lungo termine, ma il retroterra culturale che ne è alla base non può essere replicato nelle democrazie meno mature in tempi compatibili con l’urgenza con cui esse devono affrontare le sfide in parola.
Confesso che, sebbene mi ritenga di convinzioni radicatamene democratiche, più volte, visitando Paesi come la citata Cambogia e altri simili (per non parlare di quello che nel mondo è oggi il caso più emblematico di connubio sviluppo sostenibile-autocratismo: Singapore), mi è capitato di sentirmi attratto dalle lusinghe dell’autocratismo come rimedio al problema delle democrazie, strutturalmente inibite dal “far votare chi non è presente e non può delegare altri al suo posto”. D’altra parte, seppure l’autocratismo rechi in sé dispositivi decisionali efficienti per consentire a una nazione di porsi obiettivi interge…