“La mia vita da prete operaio”. Dialogo con don Roberto Fiorini

“Noi preti operai rappresentiamo un’interpretazione del Concilio Vaticano II”. Dal volume “Il prete, la professione e la fabbrica” di Giuseppina Vitale (Edizioni Studium), proponiamo questa intervista a don Roberto Fiorini, direttore della rivista “Preti Operai”.

La raffinatezza intellettuale del mio interlocutore è indubbia: Roberto Fiorini, classe 1937, estimatore del pensiero di Bonhoeffer, Simone Weil, Paul Gauthier, riesce a trasmettere quella sorta di coerenza frutto di un’idea che tende a farsi azione concreta.
Fiorini nel 1963 fu ordinato prete; nel 1966 – a ventotto anni – monsignor Antonio Poma, vescovo di Mantova (1954-1967), lo incaricò assistente provinciale delle Acli: entrò, perciò, in contatto con il mondo del lavoro. Nel 1972 si iscrisse a un corso di formazione per infermieri generici organizzato dalle Acli, e nel 1973 fu assunto in un ospedale psichiatrico.
«Dieci anni in ospedale psichiatrico segnano per sempre», afferma. Per don Roberto, questo fu un “luogo teologico”, uno spazio cioè dove la fede assume il volto di una “giustizia che deve compiersi”, che assolutamente non può mancare. Il clima che si respirava era quello che portò alla legge n. 180/1978, sulla riforma psichiatrica; cominciavano ad emergere quei temi legati alla lotta anti-istituzionale, per l’umanizzazione e il rinnovamento dell’assistenza psichiatrica, della socializzazione del problema, con interventi sulla stampa. Roberto Fiorini, in quanto delegato Cgil, fu parte attiva in questa lotta sociale. La scelta lavorativa diventò la rinuncia ad uno status, a un ruolo definito e concluso in termini religiosi, per entrare in pieno in una condizione di esistenza laica.
Negli ultimi nove anni, don Roberto si è dedicato ad assistere il padre, scomparso nel dicembre 2010, totalmente dipendente e in alimentazione artificiale per un grave ictus. Dalle sue testimonianze, oltre ad emergere una sensibilità speciale nei confronti della vita e della morte, affiora il desiderio di recuperare e sperimentare la sua origine operaia. Il papà, per l’appunto, operaio metalmeccanico, negli ultimi anni di lavoro è stato colpito da una forma di parkinsonismo che gli rendeva difficile il corretto utilizzo degli arti superiori: «Una delle cose che, con l’avanzare degli anni, più lo hanno fatto soffrire era il tremore delle mani; lo viveva come una profonda umiliazione, perché lo colpiva proprio nel suo punto di forza. Era la sua intelligenza trasmessa alle mani che sentiva offesa e ferita».
Don Roberto oggi è impegnato nel movimento “Libertà e giustizia”, nella circoscrizione territoriale di “Banca etica”, ha l’incarico di collaborare con le Acli provinciali che insieme a “Libera” promuovono iniziative culturali finalizzate alla difesa e salvaguardia della Costituzione. È direttore della rivista «Preti Operai», nata nel 1987.

Don Roberto, qual è stata la sua esperienza lavorativa?

La mia esperienza non è stata di fabbrica, ma nell’ambito della sanità. Nel 1972 ho frequentato un corso professionale d’infermiere generico presso le Acli, di cui ero assistente provinciale dal 1966. È stato il primo passo per imparare un lavoro. In quegli anni, infatti, avevo maturato la decisione di andare a lavorare, lasciando l’insegnamento di religione nelle scuole pubbliche. L’impegno nelle Acli mi aveva messo a contatto diretto con il mondo del lavoro e con i problemi che allora erano al centro del dibattito, come ad esempio l’unità sindacale. Frequenti erano i rapporti con i lavoratori, con gli operai delle fabbriche, con situazioni di lavoro minorile. Non sono mancate occasioni di confronto dialettico con imprenditori. A Mantova non era poi così facile trovare lavoro per un prete. L’ospedale “Carlo Poma” rifiuta la mia domanda. Molti anni dopo ho saputo con certezza che avevano voluto escludermi. Se mi avessero ammesso al concorso, sarei andato in un reparto ospedaliero con i turni. L’anno dopo anche don Gianni Alessandria, l’altro prete mantovano che aveva scelto il lavoro, vedrà respinta la propria domanda dall’ufficio personale dell’Edison. Nell’una e nell’altra direzione comandavano “cattolici”. Nel maggio del 1973 sono stato assunto all’ospedale Psichiatrico. L’amministrazione era di sinistra, avevano bisogno di persone per dare avvio a una nuova attività sul territorio della Provincia. La mia qualifica iniziale era d’inserviente, ma le mansioni affidatemi erano di tipo organizzativo, correlate con i nuovi programmi. Ho accettato quello che mi si offriva, rendendomi subito conto che era un campo di lotta importante, in un periodo di grandi trasformazioni. Erano gli anni che immediatamente precedevano il varo della legge Basaglia (n. 180/1978, sulla riforma psichiatrica).

Nell’ospedale psichiatrico di Mantova i ricoverati erano 630, giravano tutto il giorno per i viali dell’ospedale, senza alcuna meta. I reparti di lungodegenza ospitavano più di cento persone. Quello che colpiva e angosciava era la dimensione di massa. In molti era diffusa la convinzione che l’ospedale psichiatrico, così come era concepito, non curava nessuno, conteneva le sofferenze, le isolava dalla società, dava l’impressione che fuori ci fossero i sani e dentro i malati, e spesso diventava il luogo dove l’anello più debole di una famiglia veniva espulso per essere piazzato lì. Era previsto il ricovero coatto con lo spoglio di tutti i beni: il paziente veniva privato di qualsiasi cosa, con una liturgia che sequestrava gli effetti personali, spogliato di tutto. Noi premevamo per un impianto culturale e psichiatrico diverso: l’asilo, assunto nei termini allora consueti, non poteva curare, ma solo contenere, diventando peraltro moltiplicatore di violenza. Una violenza esercitata anche attraverso i farmaci e con …

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