Fascismo e berlusconismo

Silvio Berlusconi non è il nuovo Benito Mussolini. E il suo governo è molto diverso da quello fascista. Ma ciò non deve rassicurare. Del fascismo il berlusconismo è l’equivalente funzionale e postmoderno, fondato sulla ‘legalizzazione’ del privilegio e sul dominio dell’immagine. I suoi modelli sono Putin e Gheddafi, e ancor più il Mackie Messer di Bertolt Brecht e il Grande Fratello di George Orwell.

Da MicroMega 1/2011 [Acquista il numero completo]

1. L’Italia di Berlusconi non è il fascismo. La dittatura proprietaria del cavalier Berlusconi non è la dittatura politica del cavalier Mussolini.

Il fascismo è stato innanzitutto violenza squadristica. Bande armate che davano alle fiamme le sedi del sindacato, dei partiti di sinistra e delle «case del popolo», che aggredivano singole personalità (anche cattoliche riformiste), bastonandole a sangue e costringendole a bere olio di ricino, per aggiungere alla violenza l’umiliazione. Piero Gobetti, giovane scrittore-editore liberale, che dialoga con il Gramsci teorico dei consigli di fabbrica, morirà proprio in seguito alle percosse.

Il fascismo è stato essenzialmente violenza, è indisgiungibile dalla violenza, è stato conquista violenta del potere, in esplicita eversione delle leggi. Violenza ed eversione – sia chiaro – che si potevano facilmente fermare, se la gran parte delle forze politiche e istituzionali «moderate» avesse considerato la legalità un valore superiore al profitto e al privilegio. La violenza fascista ha invece trovato zelante manforte nella complicità di settori cruciali dello Stato, e nell’acquiescenza di tutti gli altri: dal re all’esercito, dal capo del governo Luigi Facta all’ex premier liberale Giovanni Giolitti, fino a Benedetto Croce. Convinti, gli ultimi due, di poter utilizzare il fascismo contro i «rossi» e poi «licenziarlo», quando avesse concluso il lavoro sporco. Colpevole illusione dei liberali a metà.

Una volta al governo, Mussolini ha trasformato rapidamente il potere esecutivo in potere tout court e, grazie a opposizioni spesso corrive o deboli, sempre divise, e a «portatori d’acqua» del mondo cattolico e liberale, ha ottenuto la consacrazione del consenso elettorale. A quel punto non ha conosciuto freni: ha sciolto gli altri partiti, ha abrogato la libertà di stampa, ha fatto assassinare il capo dell’opposizione, Giacomo Matteotti. Ha creato un sistema di spionaggio dichiaratamente fascista, ha introdotto nuovi reati politici, criminalizzando ogni forma di dissenso, e poiché i magistrati ordinari non li applicavano con la severità auspicata dal regime, ha creato un Tribunale speciale per comminare anni di galera o di «confino» (1).

Ma la dittatura fascista non si è limitata alla violenza, alla repressione di ogni forma di dissenso anche solo potenziale. Non si è accontentata della distruzione di partiti, sindacati, libera stampa. Ha preteso di integrare organicamente tutti gli italiani nel regime, di rendere obbligatoria e inevitabile la loro partecipazione e collaborazione, l’identificazione tra l’essere fascista e l’essere italiano. Dalla culla alla tomba.

In primo luogo attraverso un sistema capillare di spionaggio reciproco: in ogni edificio un capo-caseggiato di provata fede fascista, che tiene informata la polizia segreta fascista di qualsiasi sospetto o anche solo mormorio, di qualsiasi barzelletta contro il regime. Ma fin qui saremmo ancora alla repressione. È invece tutta la vita che viene irreggimentata, fascistizzata. Si comincia da bambini. Tra i quattro e i sei anni si diventa «figli della Lupa» («figlie della Lupa», le bambine). A nove anni i maschi diventano «balilla» (2) e le femmine «piccole italiane», a quattordici rispettivamente «avanguardisti» e «giovani italiane». Tra i diciotto e i ventidue anni si viene inquadrati nei Fasci giovanili di combattimento (nelle «giovani fasciste» per le ragazze) e nella Gioventù italiana del Littorio. Nel frattempo venivano sciolti i boy scout.

Per chi arriva alle scuole superiori e all’università l’inquadramento è nei Gruppi universitari fascisti, che hanno a partire dal 1934 anche una gara cultu…

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L’Autonomia Differenziata è un progetto politico che lede la natura della Repubblica Italiana, sancita dalla Costituzione come “una e indivisibile”, foriero non solo di inammissibili disuguaglianze ma anche di inefficienze. Contro di essa si sono espressi costituzionalisti, istituzioni, soggetti politici, sociali ed economici, fino ad arrivare alla Commissione Europea. Eppure il governo procede a spron battuto nel volerla attuare, mostrando i muscoli e tappandosi le orecchie. Contro questo scellerato agire a senso unico bisogna agire ora, altrimenti – considerando il criterio della decennalità – sarà davvero troppo tardi.

Regionalismo differenziato o centralismo diffuso? L’autonomia differenziata punta a demolire il Parlamento

La legge sull’autonomia differenziata rischia di diventare una utile stampella al premierato, di rafforzare, più che il regionalismo differenziato, un “centralismo diffuso” che consente al Presidente del Consiglio di negoziare con le singole regioni, esautorando totalmente il Parlamento dalle sue funzioni; e, con esso, svuotare di sostanza la Repubblica democratica.

La guerra contro lo Stato condotta dal liberismo della “sussidiarietà”

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