Come funziona la propaganda vecchia e nuova e come riconoscerla in democrazia

Tutte le epoche e tutti gli stili di governo hanno usato la propaganda, ma come possiamo distinguerla dall’arte legittima della persuasione politica? Pubblichiamo un estratto dal volume “Caccia alla verità” di Gloria Origgi edito da Egea.

La propaganda è per le democrazie ciò che la violenza è per le dittature.
– Jean Giraudoux

«Propaganda» è oggi una parolaccia, un insulto che i politici, spesso proprio coloro che ne fanno ampio uso, si rimandano l’un l’altro e un modo del pubblico di discreditare qualsiasi informazione che venga dal mondo politico. Eppure, la parola ha nobili origini religiose: è infatti dalla Congregatio de Propaganda Fide (Congregazione per la Propaganda della Fede), un’istituzione della Chiesa romana incaricata di diffondere la fede attraverso le missioni e di contenere la Riforma, che trae origine il termine moderno. La Congregazione rappresentava una commissione istituita inizialmente tra il 1572 e il 1585, sotto l’autorità di Papa Gregorio XIII, per studiare le modalità di azione e organizzazione contro la Riforma protestante. È l’uso della propaganda nei regimi totalitari del XX secolo che conferisce valenza negativa al termine.

In realtà la propaganda non è tipica dei regimi totalitari: essa nasce insieme alla democrazia. Sin dai tempi della democrazia ateniese, le tecniche oratorie di «propaganda» sono intimamente connesse all’idea stessa di partecipazione politica. Nessuna democrazia può funzionare senza il consenso, e Aristotele ne era già ben cosciente quando, nel secondo libro della Retorica, spiega agli oratori come guadagnarsi il consenso del loro pubblico attraverso la manipolazione delle emozioni. La tradizione retorica antica, rivolta ai politici, può essere vista come l’invenzione di un’arte politica di persuasione del pubblico a proprio vantaggio. È con la Prima Guerra Mondiale che le democrazie inventano la propaganda di massa, poi ripresa dai regimi totalitari. Si potrebbe sostenere che il XX secolo sia il secolo dell’invenzione delle masse e dell’opinione pubblica. L’estensione del suffragio universale, i progressi dell’alfabetizzazione, la diffusione della stampa fanno della «massa» il protagonista del Novecento.

Già il medico, antropologo, sociologo francese Gustave Le Bon (1841-1931), considerato uno dei fondatori della psicologia sociale, scriveva nel 1895: «L’epoca in cui stiamo entrando sarà davvero l’epoca delle folle. […] Oggi non contano più le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei governanti e le loro rivalità, ma la voce delle folle è diventata predominante». Pochi anni dopo, il sociologo Gabriel Tarde riprende l’argomento di Le Bon in un libro meno noto, L’opinione e la folla, cercando di comprendere il nuovo pubblico creato dalla stampa, «una folla dispersa, in cui l’influenza gli uni sugli altri è diventata un’azione a distanza, a delle distanze sempre più grandi». Paradossalmente, era già chiaro alla fine del secolo scorso che più l’informazione aumenta, più la gente diventa manipolabile e il rischio di «fiumi sociali», come li chiamava Tarde, ossia, di movimenti collettivi di opinione che trascinano le folle ben al di là della loro razionalità, diventa sempre più…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.