Assange, comprendere la sentenza sul permesso di appello tra legalità e politica

Il 26 marzo 2024 i giudici dell’Alta Corte britannica hanno reso noto il verdetto sul permesso di appello, ammettendo quest’ultimo solo per alcuni punti sollevati dagli avvocati difensori e solo nel caso in cui gli Stati Uniti non presentino, entro il 16 aprile, delle rassicurazioni diplomatiche che verranno valutate dai giudici il 20 maggio prossimo. Per comprendere il verdetto è necessario analizzare sia le ultime fasi della battaglia legale sia le specificità del momento politico attuale.

La sentenza sulla richiesta del permesso di appello contro l’ordine di estradizione, giunta all’inizio di questa settimana dall’Alta Corte britannica, può essere compresa solamente facendo riferimento alla strenua difesa di alcuni articoli chiave della Convenzione Europea per i Diritti Umani (CEDU) che gli avvocati di Julian Assange hanno portato avanti durante l’udienza del 20 e del 21 febbraio 2024. Allo stesso tempo, per una compiuta analisi, è necessario considerare, oltre alla battaglia legale e ai suoi argomenti, anche l’attuale congiuntura politica statunitense.

Analizziamo entrambi, inquadrando, come prima cosa, i punti fondamentali del verdetto di Dame Victoria Sharp e Lord Justice Johnson, i giudici assegnati al caso. L’appello sarà concesso soltanto in relazione a tre argomenti sui nove sollevati dal team legale di Assange e potrà avere luogo soltanto se gli Stati Uniti non presenteranno, entro il 16 aprile prossimo, delle note diplomatiche in grado di rassicurare circa il fatto che Assange non affronterà la pena capitale, non sarà discriminato in base alla propria nazionalità e vedrà garantita la possibilità di avvalersi delle protezioni per la libertà di pensiero che originano dal Primo emendamento della Costituzione americana. La valutazione di tali promesse avverrà il 20 maggio, che si configura quindi come nuova data in cui ci sarà dato di capire se Assange potrà fare appello oppure no.

Qualcuno ha visto di primo acchito un filo di speranza, considerando che l’appello avrebbe potuto non essere concesso su alcun punto e Assange, in un tale caso, avrebbe potuto essere trasferito negli Stati Uniti nel giro di pochi giorni. Il problema è che, aprendo alla possibilità di decidere il destino di Assange sulla base di rassicurazioni diplomatiche da parte dell’amministrazione americana, la corte ha passato la palla agli Stati Uniti in un modo che, dopo cinque anni di meticolosa battaglia giudiziaria condotta dagli avvocati di Assange a difesa di diritti umani fondamentali all’interno di una democrazia, minimizza un lustro di argomentazioni togliendo quel velo pietoso che, fin dall’inizio, si è cercato di usare per coprire  la natura essenzialmente politica di questo caso.

Se gli Stati Uniti presenteranno delle rassicurazioni, con ogni probabilità il Regno Unito le accetterà qualunque credibilità abbiano. Sappiamo infatti cosa è accaduto all’epoca del processo in secondo grado, anche esso…

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