Israele puntava a una nuova Nakba da ben prima del 7 ottobre

Nella società e negli ambienti politici israeliani già un anno fa era molto diffuso il parere favorevole all’espulsione in massa dei palestinesi. Lo scempio in corso a Gaza non è una risposta agli attacchi del 7 ottobre: questo articolo, pubblicato il 19 aprile 2023 dalla rivista Jewish Currents, ne preconizzava l’attuazione, chiedendosi nel titolo “Israele sta programmando una nuova Nakba?”. La raccolta di numerose dichiarazioni di esponenti dell’establishment israeliano e il disvelamento dei loro piani fa capire che quanto accade oggi a Gaza e in Cisgiordania ha poco a che fare con Hamas.

Quando i rappresentanti del Governo di Benjamin Netanyahu spiegano il perché della loro spinta a indebolire la Corte Suprema di Israele, citano spesso le limitazioni che questa impone alla loro possibilità di punire i palestinesi. “Se voglio demolire le case dei terroristi, chi me lo impedisce?”, tuonava la deputata del partito Likud Tali Gottlieb durante un comizio filogovernativo tenutosi il 27 marzo 2023. “Chi mi impedisce di sottrarre i diritti alle famiglie dei terroristi?”. A ogni domanda seguiva la risposta della folla: “La Corte Suprema!”. Quando poi è arrivato il momento di salire sul palco per il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, ecco che ha dato vita a un simile botta e risposta. “Quando volevamo introdurre la legge sulla pena di morte per i terroristi, chi si è messo in mezzo?”; “Quando abbiamo presentato una proposta per offrire l’immunità ai soldati, chi si è messo in mezzo?”. E la folla continuava a sbraitare: “La Corte Suprema!”.

Quando i palestinesi spiegano quale sia l’attuale agenda del governo israeliano, molti descrivono le politiche portate avanti da Gottlieb e Ben-Gvir come parte di una strategia più ampia: quella dell’espulsione di massa. All’inizio di marzo  (2023, ndr), l’attivista palestinese contro l’occupazione Fai Quran mi ha detto che si sentiva “come se ci trovassimo alla vigilia di un’altra Nakba” — il termine che fa riferimento all’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi dopo la nascita dello Stato di Israele. Lo scorso dicembre, quando il sondaggista Khalil Shikaki ha chiesto ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza quali fossero secondo loro le future aspirazioni di Israele, il 65% ha indicato “l’estensione dei confini dello Stato di Israele in tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, oltre all’espulsione dei cittadini che abitano quelle terre”.

Nel dibattito politico americano mainstream, tale prospettiva risulta inimmaginabile. I rappresentanti del governo degli Stati Uniti non comprendono appieno la paura di un’altra Nakba dei palestinesi . Più spesso invece li trattano come un popolo che sarebbe già avviato verso l’indipendenza se solo evitasse azioni “controproducenti” — come la pretesa di una maggiore pressione internazionale su Israele — che “li allontana ulteriormente dalla soluzione di due Popoli due Stati”. Ma quando i palestinesi affermano che l’obbiettivo a lungo termine di Israele non sta nell’istituzione di uno Stato palestinese, bensì nella loro espulsione, non dicono una follia. La soluzione dell’espulsione è profondamente radicata nella storia sionista e riguarda una tendenza a tutt’oggi prevalente in Israele anche tra i politici e gli opinionisti considerati moderati. Gli attuali ministri della D…

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.

Il lavoro invisibile delle donne

Se le condizioni del lavoro sono complessivamente peggiorate per tutti negli ultimi decenni in Italia, il lavoro delle donne è stato nettamente il più penalizzato. Costrette dalla maternità (effettiva o potenziale) a scelte sacrificate e di povertà, molte percepiscono un reddito inferiore rispetto a quello maschile, sono precarie, e spesso invisibili.